Gli annunci rassicuranti di Cina e Usa sulla CO2, mentre puntano alla crescita globale

CATEGORIE:

I due maggiori emittitori di gas serra ratificheranno l’accordo di Parigi. Gli attuali piani nazionali di tutti i firmatari però sarebbero oggi sicuramente inefficaci per limitare l'aumento della temperatura a 2 °C. Serve cambiare un modello economico che ha fallito, ma al G20 si punta sulla "salvifica" crescita.

ADV
image_pdfimage_print

I due maggiori produttori di emissioni di gas serra, Usa e Cina, hanno annunciato sabato 3 settembre che ratificheranno formalmente l’accordo di Parigi sul clima che, per entrare in vigore, richiede la ratifica di 55 paesi che rappresentino almeno il 55% delle emissioni globali.

Con l’adesione dei due colossi e maggiori inquinatori del pianeta, che insieme fanno il 38% delle emissioni, si ritiene che l’accordo possa essere ratificato in via definitiva già entro fine anno.

Se entrerà in vigore, vorrà dire che tutti i 180 paesi sottoscrittori dovranno tagliare le loro emissioni come indicato dai loro attuali piani nazionali (Intended Nationally Determined Contributions), che però la comunità scientifica ritiene assolutamente inadeguati, visto che porterebbero (ammesso che vengano rispettati) a un aumento della temperatura media globale di 2,7 °C, forse di 3 °C, rispetto ai livelli preindustriali.  

Si andrebbe dunque, molto al di là della cosiddetta soglia di sicurezza, che è uno dei pochi punti fermi dell’accordo di Parigi: il target di aumento di 2 °C, tralasciando quello “auspicato” degli 1,5 °C, che è una vera e propria presa in giro. Sarebbe stato più incisivo indicare la necessaria riduzione delle emissioni; puntando alla sola temperatura non si è voluto dare più forza all’obiettivo.

Prima dell’annuncio di Obama e Xi Jinping, avevano ratificato l’accordo solo 24 paesi in “rappresentanza” dell’1% delle emissioni di CO2 (dai World Resources Institute). Vedremo come si muoveranno politicamente altri paesi importanti in termini di CO2, come Russia, India, Giappone e Unione Europea.

Il mondo ambientalista e diplomatico si divide, con parecchie sfumature al suo interno, su bontà e importanza storica di questo annuncio Usa-Cina, come aveva fatto dopo l’accordo di dicembre. Questa adesione formale dei due grandi tuttavia alla fine dei negoziati di dicembre 2015 era comunque data quasi per acquisita.

Con la ratifica dei due paesi, possiamo accettare che vi sia un segnale per l’economia mondiale, anche se davvero trascurabile visti gli interessi in gioco, e condividere il fatto che sia un inizio diplomatico del processo. Ma tutto qui. Parlare di successo o ritenere che questa sia la pietra miliare di una lunga fase di decarbonizzazione dell’economia credo sia fuorviante e prematuro.

Fuori luogo sono anche le dichiarazioni del Presidente americano, peraltro uscente, che disse: “l’accordo è il punto di svolta per salvare il pianeta” (altro aspetto del linguaggio che dimostra scarsa umiltà: non sarebbe meglio parlare di umanità, piuttosto che pianeta?).

Obama ha poi peggiorato il suo approccio di marketing affermando sabato che “se Paesi come Cina e Stati Uniti sono pronti a prendere la leadership, attraverso l’esempio è possibile creare un mondo migliore”. Stiamo parlando dei due paesi che hanno aumentato di più negli ultimi anni le spese per gli armamenti e continuano ad essere fattori di destabilizzazione più che di soluzione dei conflitti globali.

Vediamo di ribadire qui alcuni concetti basici, che sicuramente non verranno graditi dai più accaniti fan dei negoziati internazionali.

Primo, i successi della politica e della diplomazia non sono risultati ma dichiarazioni di intenti, benché in parte vincolanti, tutti da dimostrare coi fatti e con futuri personaggi politici diversi da quelli che oggi si proclamo i salvatori (resta possibile la vittoria di Trump negli Usa).

Secondo, i risultati diplomatici come l’accordo di Parigi (che ci sono) non hanno niente a che fare con l’evoluzione fisica del clima, che ha ben altri tempi e dinamiche: siamo già a un livello di concentrazione atmosferica della CO2 di 403 ppm (parti per milione), cioè del 37% superiore al picco raggiunto prima dell’era industriale, vicino a quei 450 ppm, considerati dalla comunità scientifica il limite oltre il quale il cambiamento climatico potrebbe diventare incontrollabile. Stiamo inoltre assistendo ad una escalation impressionante nell’aumento delle temperature.

Terzo aspetto, continuano gli investimenti nel settore dei combustibili fossili, in particolare nel carbone, e al momento l’accordo parigino va a modificare pochissimo il business as usual delle politiche energetiche di tanti paesi, soprattutto quelli emergenti (si veda anche il report di CAN Europe che abbiamo pubblicato stamattina, che mostra come l’UE continui a puntare molto sulle fossili, ndr).

Solo l’India, quarto paese per emissioni di gas serra, sta pianificando la costruzione di oltre 400 centrali a carbone, tanto che si stima che le sue emissioni aumenteranno di tre volte entro il 2030.

La stessa Cina ha pianificato che la sua prevedibile crescita economica porterà ad un aumento della CO2 del 50% entro il 2030; cioè a quella data avremo solo dal colosso asiatico un aumento delle emissioni totali pari a quasi il 30% di quelle globali. Consideriamo anche che l’attuale obiettivo cinese è di tagliare la CO2 per unità di Pil e non in termini assoluti, se non dal 2030.

Anche gli Usa non brillano per linearità, visto che i loro tagli li rapportano al 2005, anno con il picco delle emissioni, anziché al 1990 come l’UE che, nel frattempo, vive un momento di tentennamenti e crisi su tutti i fronti, che la renderà probabilmente incapace di tirare la carretta delle politiche climatico-energetiche. E poi miliardi di persone, oggi esclusi dal commercio internazionale, dall’industrializzazione, alcuni dei quali senza accesso all’energia e mal nutriti, agognano un modello di vita occidentale.

Il compito che ci si aspetta è di cambiare un modello economico strutturato e orientato solo per la crescita che non potrà che far aumentare le emissioni. Ed è, guarda caso, proprio quella che vogliono all’unanimità i G20 riunitisi in questi giorni in Cina: “un nuovo patto per la crescita globale”, anche se addolcito dall’auspicio che questa deve essere “innovativa, inclusiva e sostenibile”.

Ma le conosciamo le altisonanti relazioni finali di questi vertici. Il mantra della crescita è nel Dna delle classi dirigenti mondiali e l’economia capitalistica la richiede. E, lo sappiamo, gli economisti non contemplano il collasso del sistemi economici e sociali: la crescita per loro è non solo possibile, ma pressoché infinita.

Un dato importante però lo ha fornito di recente un economista inglese, Paul Ekins: ogni anno sono investiti nel settore delle energie low carbon circa 330 miliardi di dollari (dato BNEF). Eskin dice che dovremmo passare almeno a 3mila miliardi di $ in rinnovabili ed efficienza. Oggi stiamo sotto quell’obiettivo di dieci volte. E che dire della produzione di CO2 causata dall’agricoltura e dagli allevamenti industriali e dal fenomeno della deforestazione?

Abbiamo davanti una corsa contro il tempo e ci stiamo baloccando con bizantinismi ed entusiasmi che potrebbero rasserenare le classi politiche mondiali e, di conseguenza, l’opinione pubblica dei paesi più industrializzati che dovrebbero al contrario esigere sostenibilità ed equità, due aspetti indivisibili.

Avremmo bisogno di mettere in campo tutte le nostre idee e risorse, anche su scala locale, attivare sistemi e processi di adattamento. E il tutto con grande rapidità. Il fattore tempo è essenziale: tra 10, 15 o 20 anni potrebbe essere troppo tardi.

Intanto le popolazioni più povere sono quelle che stanno vivendo sulla loro pelle gli effetti del global warming. Ma qualche contraccolpo sta arrivando anche dentro i confini nazionali dei più ricchi, capaci solo di alzare barriere. È vero, siamo solo all’inizio.

ADV
×