Il senso del limite per l’economia e la transizione verso la Green Economy

La green economy non va più pensata come un nuovo settore economico, ma piuttosto come la trasformazione dell'economia tradizionale in un'economia ambientalmente compatibile. Non sarà un percorso senza ostacoli e una delle tappe principali è la presa di coscenza dei cittadini.

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Secondo le più recenti rilevazioni della Nasa, la concentrazione atmosferica della CO2 ha superato 403 ppm, un livello del 37% superiore al picco raggiunto prima dell’era industriale, pericolosamente vicino ai 450 ppm, limite oltre il quale il cambiamento climatico potrebbe diventare incontrollabile (vedi grafico di seguito).

Di conseguenza, rispetto al periodo preindustriale, non solo la temperatura media globale è cresciuta di 1,1 °C, ma, sempre secondo la Nasa, il trend degli ultimi sette mesi fa prevedere per il 2016 un aumento di 0,2 °C rispetto al 2015; di fatto relegando nel libro dei sogni l’obiettivo di 1,5°C come tetto alla sua crescita.

Chi è convinto dall’evidenza dei fatti che l’attuale modello sviluppo sia insostenibile, spesso invoca la green economy come un mantra e, nella maggior parte dei casi, la identifica con l’avverarsi di due condizioni: le fonti rinnovabili che soddisfano interamente la domanda di energia, a sua volta razionalizzata grazie al massimo efficientamento energetico possibile.

Indubbiamente la produzione di energia da fonti rinnovabili è condizione necessaria per lo sviluppo della green economy, però con alcune avvertenze. Innanzitutto l’impatto climatico positivo derivante dall’utilizzo di tali fonti non può andare a discapito delle altre esigenze di sostenibilità. Emblematico è il caso dell’impianto idroelettrico cinese “Progetto Tre Gole“, attualmente il più grande del mondo: 18.200 MW, che in un anno può generare 84,7 TWh di energia elettrica (circa il 31% di tutta la produzione italiana nel 2015).

Per realizzarlo sono stati inondati 632 km2, obbligando all’esodo 1.130.000 abitanti e sommergendo zone di rilevante importanza archeologica, con un impatto oltre che territoriale anche climatico, tanto da sollevare proteste da parte di gruppi ambientalisti cinesi, insolite per dimensione e durata. Anche realizzazioni aventi dimensioni di parecchi ordini di grandezza inferiori possono avere impatti negativi, soprattutto quando il territorio è una risorsa scarsa.

In simili circostanze, gli impianti fotovoltaici integrati negli edifici sono qualitativamente preferibili rispetto a quelli a terra, anche perché riducono il fabbisogno di grandi linee elettriche. Neppure in questo caso si possono però considerare identici gli effetti di un’installazione su un edificio climatizzato con una pompa di calore o con un meno efficiente condizionatore elettrico.

Considerazioni analoghe valgono anche per i digestori anaerobici, i cui benefici, in termini di sostenibilità, vengono massimizzati quando sono parte integrante di un ciclo agricolo economicamente e ambientalmente virtuoso (il “biogasfattobene”, che aumenta la fertilità del suolo, riduce drasticamente o annulla l’uso di fertilizzanti chimici, effettua la soil carbon sequestration). Anche se rispettosi di tutte le condizioni che garantiscono il massimo di stabilità ambientale e territoriale, fonti rinnovabili e efficientamento energetico non esauriscono le trasformazioni richieste per realizzare la green economy.

La visione olistica della green economy

Secondo Aldo Bonomi: «Green economy significa ragionare intorno alle modalità attraverso le quali il modello di sviluppo capitalistico incorpora il senso del ‘limite’ (ambientale, sociale, produttivo), quale nuovo principio di accumulazione, facendone il motore di un nuovo ciclo. Appare come un paradigma che investe processi produttivi, prodotti, politiche regolative, stili di vita, rappresentazioni artistiche, (ri)uso del territorio, smart cities, smart land», (Il Sole 24 Ore, 30 aprile 2014).

Tolgo da questa felice sintesi i riferimenti agli stili di vita, non perché li consideri meno importanti, anzi, per la ragione opposta: lo sono al punto da rendere impropria la loro collocazione all’interno della green economy, per cui li affronterò separatamente nella parte conclusiva dell’articolo. Il senso del limite, identificato come nuovo principio di accumulazione, offre una chiave di lettura della green economy che mette fuori gioco sia le accuse di anti-industrialismo, sia le suggestioni dei fautori della decrescita felice.

Lo confermano le prospettive aperte dall’applicazione su larga scala di uno dei cardini della green economy: l’utilizzo efficiente di tutte le risorse naturali e ambientali che, secondo studi della McKinsey & Company “Remaking the Industrial Economy“, febbraio 2014, e “Are you ready for the Resource Revolution?”, marzo 2014), consentirebbe di passare dall’attuale 1-2%/anno di aumento della produttività nell’uso delle risorse primarie, al 50% ogni pochi anni.

Potenzialmente esistono dunque margini sufficienti per concepire una crescita economica globale necessaria per migliorare le condizioni degli ‘have not’ – e nel contempo ridurne l’impatto sull’ecosistema.

Simili risultati si ottengono modificando in profondità i processi produttivi e i prodotti, ma anche l’organizzazione delle filiere industriali e del territorio.

A tal fine, un’innovazione non meno importante delle rinnovabili è l’Additive Manufacturing (AM), comunemente nota come stampante 3D, di cui ho già parlato su questa rivista (Economia a filiera corta, “QualEnergia”, giugno-luglio 2014). L’AM non è solo in grado di lavorare una vasta gamma di materiali e di produrre componentistica pienamente funzionale, compresi meccanismi complessi, come batterie, transistor, Led, ma anche spaghetti. La ridotta incidenza delle dimensioni di una stampante 3D sui costi di produzione favorisce lo sviluppo di una manifattura diffusa, spesso a livello artigianale, capace di realizzare prodotti unici su specifica del cliente, o addirittura home made (estensione della figura del prosumer): uno sviluppo coerente con le tendenze complessive di un’economia che evolve in senso “green”.

I processi produttivi basati sull’addizione di materiali – caratteristica dell’AM – eliminano quasi del tutto gli scarti di lavorazione propri della manifattura tradizionale, che opera prevalentemente sottraendo materiali ai semilavorati su cui interviene: rendono cioè concreta un’organizzazione produttiva e sociale dove il concetto di rifiuto ha meno cittadinanza.

Nella stessa direzione vanno innovazioni a un tempo tecnologiche e organizzative, come lo sviluppo dell’economia circolare in ambito industriale. Per esempio la Philips ai clienti che sono imprese, invece dei prodotti vende il servizio di illuminazione. I clienti pagano per la luce che utilizzano e la Philips si preoccupa degli investimenti necessari e dei rischi di un’obsolescenza dei sistemi di illuminazione installati, provocata dall’arrivo sul mercato di nuove tecnologie. Gli impianti vengono comunque sostituiti quando è il momento appropriato per riciclare i materiali o riqualificarli per il riuso.

Secondo Frans van Houten, Ceo di Philips, «il passaggio all’economia circolare impone a chi lavora in Philips un cambiamento di mentalità. Non possiamo più pensare in termini di prodotti creati per essere scaricati sui clienti, dobbiamo concepirli in modo che siano riqualificabili, di facile manutenzione, e diventino la fonte da cui estrarre materiali e componenti riutilizzabili. Dobbiamo ragionare con un orizzonte temporale di quindici anni, non solo sul presente, il che richiede di analizzare l’intero ciclo del prodotto, coinvolgendo i nostri fornitori e i nostri venditori».

Viene così rivoluzionata l’intera filiera industriale, inclusi i criteri di progettazione, che devono mirare a prodotti facilmente smantellabili, con elevato riciclo dei loro componenti e un agevole recupero dei materiali di quelli non riutilizzabili.

Nella stessa direzione si muove ad esempio anche la Ricoh, una delle aziende leader nel settore delle macchine per ufficio, che ha progettato una “linea verde” per le copiatrici e le stampanti, cedute con contratti di leasing. Una volta restituite dal cliente, vengono smontate e inserite in un processo di ristrutturazione, che comprende la sostituzione di alcuni componenti, ma soprattutto l’aggiornamento del software. Nel 2020 l’azienda prevede di ridurre del 25% la domanda di nuovi materiali rispetto al 2007.

Sono due esempi, fra i molti disponibili, da cui emerge un’ulteriore innovazione: la vendita di un prodotto è sostituita dal suo uso, che apparenta l’economia circolare a un altro cambiamento in rapida crescita, la sharing economy, basata sull’accesso a servizi che sostituiscono la proprietà dei beni.

Car sharing e car pooling (con Blablacar che attualmente organizza venti milioni di passaggi annui in auto tra due città) ne sono i fenomeni più visibili. Secondo uno studio condotto a livello mondiale dalla società di consulenza AlixPartners, le nuove forme di mobilità, car sharing in testa, entro il 2020 faranno sparire oltre quattro milioni di vetture dalle strade dell’Europa e degli Stati Uniti.

L’impegno delle imprese

Più in generale, la cosiddetta Industria 4.0 renderà le fabbriche capaci di auto-configurarsi e auto-aggiornarsi, grazie alla diffusione capillare di sensori e di “intelligenza” distribuita, all’interconnessione dei macchinari tra loro e con Internet delle Cose.

Il possibile cambio in tempi incredibilmente ristretti dei processi produttivi e dei prodotti può facilitare la transizione a go green di molte aziende tradizionali, soprattutto se le politiche industriali, ma anche le politiche tout court dei governi diverranno coerenti con gli obiettivi dell’accordo sottoscritto alla Cop 21.

Viceversa, a oggi, un discreto numero di grandi imprese si sta dimostrando più consapevole dell’urgenza di rispondere con disposizioni concrete all’accelerazione del cambiamento climatico. Lo conferma un recente studio della Banca Mondiale “State and Trends of Carbon Pricing“, (settembre 2015), che sulla base dei risultati dell’indagine condotta nel 2014 dal “Carbon Disclosure Project“, mette in evidenza come il ricorso a meccanismi di carbon pricing stia diventando uno strumento comunemente adottato dalle imprese, anche in paesi dove non esiste una legislazione in materia.

Alcune aziende incorporano il carbon pricing nei costi dei progetti di nuovi investimenti, includendolo quindi tra i fattori che influenzano il processo decisionale. In altri casi viene caricato sui centri di costo delle singole unità di business. In altri ancora è utilizzato nelle procedure di risk management, per valutare il potenziale impatto, sulle attività dell’impresa, di future decisioni politiche a favore del carbon pricing oppure per identificare e prezzare i risparmi e le opportunità di ritorni economici, derivanti dall’opzione di investire in processi produttivi low-carbon. Si tratta di una tendenza in rapida crescita.

Dall’aggiornamento 2015 dell’indagine “Putting a price on risk: Carbon pricing in the corporate world” emerge che, rispetto al 2014, è triplicato il numero di imprese che hanno reso noto l’utilizzo di un prezzo interno del carbonio: da 150 a 435, fra cui molte big. E altre 583 prevedono di adottarlo entro i prossimi due anni (vedi di seguito).

La tabella mostra il prezzo utilizzato dalle utility, che hanno accettato di renderlo noto; come si vede, in diversi casi i valori sono largamente superiori a quelli ufficiali, mentre di seguito si riporta la suddivisione per attività e aree geografiche di tutti gruppi nominalmente indicati nell’aggiornamento 2015, mette in evidenza che, pur con notevoli differenze, il fenomeno è diffuso in tutti i continenti:

 

Vale la pena di sottolineare che nella lista sono presenti molte delle imprese più note nei loro settori, come Walt Disney Company, Google Inc., Microsoft, Mazda, Nissan Motor Co. Ltd, Bmw, Renault S.A., General Motors Co., Samsung, Nestlè S.A., Unilever, Danone, ExxonMobil, Chevron Co., BP plc, Eni, Shell, Statoil, Total S.A., Petrobras, Barclays Bank plc, Commerzbank, Credit Suisse Group, Deutsche Bank, Goldman Sachs Group, Inc., Hbsc, Lloyds Bank, Saint-Gobain, General Electric Company, DuPont, Dow Chemical Company, Mitsubishi Motors Corporation, AcelorMittal, Solvay S.A., ThyssenKrupp AG, Enel, E.On Energia, Centrica, EdF, Engie, Rwe AG, Consolidated Edison Inc., Duke Energy.

Questi dati confermano che la green economy non va pensata come un nuovo settore economico, affiancato a quelli esistenti, bensì come la trasformazione dell’economia tradizionale in un’economia, che nell’essere ambientalmente compatibile trova le condizioni per non vedere compromesso il proprio futuro da una crisi climatica irreversibile. Condizioni che, in parte, potrebbero però essere rese meno efficaci dall’assenza di un’analoga consapevolezza diffusa all’interno della società.

Da green economy a green society

Le tre parole – “stili di vita” , incluse nella definizione di Bonomi, sottolineano proprio l’esigenza di comportamenti altrettanto ambientalmente compatibili nella vita quotidiana di tutti noi.

Quando si osserva che le smart cities non possono essere tali senza smart citizen, in modo un po’ criptico si fa la stessa affermazione. Si riconosce cioè che la green economy è compiutamente realizzabile solo se accompagnata da un percorso parallelo in direzione di una green society, dove diversa è la cultura dominante, diversi sono, appunto, gli stili di vita. Sarebbe presuntuoso da parte mia tentare una descrizione minimamente esaustiva di come dovrebbe configurarsi una green society.

È però lecito ipotizzare che, entro i limiti determinati dalle “imperfezioni” della natura umana, la green society debba essere per quanto possibile giusta, equa, inclusiva, e rappresenti pertanto il contesto migliore per stimolare nuovi modi di pensare e di agire nell’interesse della collettività.

Per fornire risposte vincenti a problemi globali, come il cambiamento climatico, in prospettiva la green society dovrà essere estesa a tutto il mondo, con l’obiettivo di non escludere nessuno dalla partecipazione ai processi decisionali: un’uguaglianza di fatto e non solo di diritto, che implica la parallela riduzione degli squilibri retributivi e sociali. In caso contrario si creerebbe inevitabilmente una contraddizione fra l’universalità dell’obiettivo e le conseguenze regressive, per chi ne sarà escluso.

È reale, ma va evitato, il rischio che una parte del genere umano incominci la lunga marcia verso la green society e la parte numericamente maggioritaria della popolazione mondiale ne resti esclusa.

Avvertenze

Sarebbe però puerile ignorare i molteplici processi in atto, che remano nella direzione opposta. Occorre essere consapevoli che la riconversione ecologica dell’economia e della società non sarà una marcia gioiosa, ma un percorso ricco di ostacoli e di trappole.

E agire (pensare) di conseguenza, con la consapevolezza che l’accelerazione, negli ultimi decenni, del cambiamento climatico ci lascia poco tempo a disposizione. «La storia – scriveva Braudel -, è una realtà durevole che permane, poco modificata, al di sotto dei cambiamenti politici, perché il passato incombe sempre sul presente e dunque sul futuro, e fenomeni sospesi in un passato rimosso riemergono a distanza di decenni, di secoli».

Ne abbiamo una drammatica conferma oggi, con il risorgere di nazionalismi che stanno rimettendo in discussione il progetto di unità europea, concepito proprio per mettere la parola fine a secoli di guerre combattute nel nome di interessi nazionali. L’Unione Europea sta attraversando una crisi senza precedenti. È percorsa da spinte centrifughe, minacciata dalla crescita di partiti e movimenti populisti e xenofobi che rappresentano la punta di un iceberg, dove frustrazioni individuali e sociali si mescolano con la diffusa sensazione del distacco fra la burocrazia di Bruxelles e le esigenze reali delle popolazioni.

Alcuni temono che questa crisi possa rivelarsi irreversibile. La Turchia, ma anche la Russia di Putin, sono altri esempi sintomatici di una regressione non solo politica. Mesta la conclusione della primavera araba. Purtroppo non possiamo attendere che i braudeliani tempi lunghi della storia facciano il loro corso. Abbiamo a disposizione pochissimi decenni per far sì che l’urgenza di cambiare modello di sviluppo sia condivisa dal miliardo di individui che da poche generazioni ha raggiunto un certo benessere e oggi lo avverte minacciato, e, impresa ancora più ardua, da alcuni miliardi di persone che a quel benessere aspirano.

Per non parlare delle trasformazioni cui devono rapidamente adattarsi società oggi organizzate in funzione dei tradizionali modelli di produzione e di consumo, pertanto dotate di infrastrutture e di habitat (città, territori extra-urbani) altrettanto funzionali. È come se a dei maratoneti si chiedesse di correre (e vincere) i 100 metri. Una missione apparentemente impossibile, che tuttavia rappresenta una scelta obbligata per scongiurare la crisi ambientale.

L’articolo è stato pubblicato nel n.3/2016 della rivista bimestrale QualEnergia, con il titolo “Il senso del limite per l’economia”.

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