Stati Uniti al top delle riserve petrolifere mondiali, ma c’è il rischio bolla

CATEGORIE:

Secondo i nuovi dati di Rystad Energy, gli Usa hanno superato Russia e Arabia Saudita per quantità di petrolio tecnicamente recuperabile. Oltre metà sarebbe contenuta nei depositi non convenzionali. Cerchiamo di orientarci tra stime spesso controverse.

ADV
image_pdfimage_print

Quanto petrolio c’è ancora sottoterra? Quando finirà? A rilanciare queste domande sono i dati appena diffusi da Rystad Energy, una società di consulenza norvegese che ha pure criticato le cifre pubblicate qualche settimana fa nel BP Statistical Review 2016.

Va detto che non c’è mai stata uniformità nei numeri sulle riserve petrolifere mondiali, perché le informazioni possono cambiare, e di molto, secondo i parametri utilizzati: dati ufficiali (quindi spesso gonfiati o manipolati dai singoli Paesi), riserve certe/probabili, nuovi giacimenti, pozzi ancora da scoprire.

Stime controverse

Secondo Rystad, gli Stati Uniti hanno sorpassato la Russia e l’Arabia Saudita quanto a riserve totali di oro nero tecnicamente recuperabili, grazie a 264 miliardi di barili, di cui una sessantina solo in Texas. La Russia si ferma a 256 miliardi, mentre l’Arabia Saudita non va oltre 212. A livello globale, invece, le riserve ammonterebbero a circa duemila miliardi di barili, che con i ritmi attuali di produzione (circa 30 miliardi l’anno) si esaurirebbero entro una settantina di anni.

Negli Stati Uniti, oltre metà del petrolio recuperabile si concentra nei giacimenti definiti “non convenzionali”: stiamo parlando dello shale oil contenuto negli scisti, estratto con la tecnica del fracking, molto controversa a causa dei suoi impatti negativi sull’ambiente, in particolare la contaminazione delle falde acquifere con sostanze chimiche.

Rystad Energy non ha risparmiato qualche frecciata a BP, perché a suo dire le statistiche del colosso petrolifero inglese si fondano su dati difformi: alcuni Paesi, come il Venezuela, hanno incluso riserve non ancora scoperte, mentre altri, come Cina e Brasile, hanno comunicato stime molto più conservative e limitate ai pozzi esistenti. Insomma, è molto facile confondere le acque, come spiega il prof. Ugo Bardi di ASPO Italia, l’associazione che studia il picco del petrolio.

Dalle riserve alla produzione

Le stime sulle riserve, osserva Bardi, sono solo trucchi contabili. Quanto petrolio c’è, chi costruirà i pozzi, chi lo comprerà? Tutto è determinato da fattori economici e l’unico dato “reale” è quello sulla produzione, che sta leggermente aumentando.

Il rapporto BP indicava un incremento dell’output quotidiano pari a 2,8 milioni di barili a livello mondiale nel 2015. I Paesi Opec si sono sforzati di spingere al massimo l’apporto dei loro pozzi, evidenzia Bardi, mentre gli Stati Uniti, dopo il picco dello shale oil di aprile 2015, stanno precipitando in caduta libera. Così nel 2015 la produzione petrolifera complessiva si è attestata a oltre 91 milioni di barili giornalieri, +3,2% rispetto ai dodici mesi precedenti.

Il ruolo dello shale oil

L’eccesso di produzione rispetto alla domanda e la caduta dei prezzi del barile, prosegue Bardi, hanno spento la fiammata dei depositi di shale oil sul suolo americano: «Le aziende hanno investito troppo, incrementando l’output a livelli stratosferici, per poi accorgersi che non c’è abbastanza mercato». Probabilmente, aggiunge l’esperto di ASPO Italia, il mercato tornerà a un punto di equilibrio quando avrà assorbito lo stock invenduto di oro nero.

Le quotazioni internazionali, allora, potranno risalire fino a 100 dollari al barile; a maggio erano già tornate sopra 50 dollari, dopo essere scese addirittura sotto quota 30 a inizio 2016. Così potrebbero ripartire anche molti giacimenti non convenzionali, finora bloccati dai prezzi troppo bassi, che non permettevano di ripagare i costi del fracking.

E dopo il petrolio?

In uno scenario di transizione energetica, i prezzi bassi del barile non sono una buona notizia, perché rischiano di favorire i consumi di carburanti fossili e frenare gli investimenti in efficienza energetica.

Tuttavia, come abbiamo visto, la loro risalita potrebbe rimettere in pista i depositi di shale oil negli Stati Uniti, ammettendo che le compagnie del settore, di cui molte sono in bancarotta, riescano a investire nuovamente nel fracking e innescare un secondo boom produttivo. Secondo Rystad Energy, quei 2000 miliardi di riserve di oro nero non sono nemmeno un granché. Potrebbero terminare anche prima di 70 anni, considerando, ad esempio, che il numero delle automobili in circolazione è destinato a raddoppiare nei prossimi trent’anni.

Quindi, osservano gli analisti norvegesi, «diventa molto chiaro che il petrolio, da solo, non può soddisfare il crescente fabbisogno energetico per i trasporti individuali».

La ricetta dei vari governi per la mobilità del futuro, insomma, dovrebbe puntare sull’elettrificazione, non solo delle vetture private, ma anche dei mezzi più pesanti (anche grazie al passaggio dalla gomma al ferro). Inoltre, sui combustibili ecologici di nuova generazione, come quelli ricavati dalle alghe e dalle biomasse di scarto.

D’altronde, le difficoltà finanziarie di molte società USA impegnate nel fracking, potrebbero essere un’avvisaglia di una bolla del carbonio. Significa che le aziende che più di tutte hanno investito nelle fonti fossili potrebbero esplodere, ritrovandosi con una serie di infrastrutture obsolete e non più sfruttabili con profitto, come miniere, piattaforme offshore, pozzi petroliferi e via dicendo.

Non a caso, queste infrastrutture si chiamano “stranded assets”, cioè beni/risorse incagliate e da dismettere, spesso a fronte di spese molto elevate per smantellare gli impianti e bonificare l’ambiente. Dietro le quotazioni del petrolio, è chiaro, ci sono tante variabili che continueranno a influire sulla transizione energetica verso tecnologie più pulite.

ADV
×