Energia e clima dopo la Brexit: ipotesi e scenari

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Il referendum del 23 giugno ha lasciato fuori dal dibattito i temi energetici e ambientali, che però sono tornati alla ribalta dopo la vittoria del “leave”. La Gran Bretagna continuerà a promuovere le rinnovabili? Che fine farà il suo impegno per ridurre le emissioni di CO2? Vediamo come potrebbe svolgersi questa partita.

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Prima del referendum del 23 giugno c’eravamo chiesti quali sarebbero potute essere le conseguenze di Brexit sul futuro dell’energia in Europa (QualEnergia.it).

I rischi evidenziati dagli economisti erano molti: alcuni di loro prospettavano una frenata degli investimenti nelle fonti rinnovabili e un isolamento energetico della Gran Bretagna, tagliata fuori dei grandi progetti cofinanziati da Bruxelles, come i nuovi collegamenti elettrici ad alta tensione tra l’isola e il continente.

Adesso che l’Inghilterra ha votato “leave” i timori della vigilia sono tornati alla ribalta nel dibattito politico post-referendum. Tra un crollo e l’altro delle Borse, le dimissioni annunciate da David Cameron, la volontà scozzese di rimanere nell’Unione europea e la petizione (quasi tre milioni di firme già raccolte) per ripetere il voto, vediamo quale sarà il presumibile impatto di Brexit sull’evoluzione delle misure clima-energia.

Brexit e Conferenza di Parigi

Vale sempre la stessa avvertenza: a nessuno è chiaro che cosa succederà esattamente nei prossimi mesi. L’unico dato certo è che la Gran Bretagna, per uscire dall’Europa, dovrà attraversare un negoziato biennale. Nel breve termine potrebbe perfino esserci un seguito “positivo”, se così lo vogliamo definire, sul fronte delle emissioni inquinanti. Brexit, infatti, potrebbe aprire una parentesi di recessione economica che, a sua volta, potrebbe tradursi in un calo della produzione industriale e del relativo fabbisogno energetico.

In realtà il problema si può porre in questi termini: quale sarà il ruolo di Londra nell’agenda climatica internazionale? Christiana Figueres, segretario esecutivo della UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change), parlando dell’ipotesi Brexit prima del 23 giugno, era stata molto chiara: «Dal punto di vista degli accordi di Parigi, la Gran Bretagna è parte dell’Unione europea e ha manifestato il suo impegno come membro dell’UE». Tradotto: l’eventuale uscita di Londra rimetterà in discussione i patti della Cop21.

Dalle rinnovabili al carbone

Le organizzazioni ambientaliste sono preoccupate. James Thornton, amministratore delegato di ClientEarth, ad esempio, ricorda che molte leggi per la protezione della natura e della salute umana in Gran Bretagna sono state scritte sotto l’ombrello europeo. Quali norme resteranno in vigore? Quali invece saranno cambiate o eliminate?

Molto dipenderà da chi diventerà nuovo primo ministro e da quanto influiranno sulle future scelte politiche le posizioni, non certo ecologiste, di Nigel Farage.

I sostenitori del “leave” hanno dimostrato ben poca sensibilità verso l’ambiente. Basta guardare il manifesto UKIP 2015 di Farage (United Kingdom Independence Party) per scoprire l’euroscetticismo applicato ai temi energetici: il Climate Change Act del 2008 è considerato dannoso, si auspica un rilancio del carbone a scapito delle rinnovabili troppo costose e inefficienti, si parla anche di sviluppo del fracking per cercare nuove risorse fossili. Con qualche tocco di negazionismo climatico, visto che Farage l’anno scorso aveva dichiarato di non avere indizi sull’eventualità che il cambiamento climatico sia imputabile alle emissioni di CO2.

Si torna indietro?

Eppure, come ci racconta Lorenzo Ciccarese, membro del Consiglio Scientifico dell’ISPRA ed esperto di negoziati climatici e ambientali, qualsiasi Governo dopo Cameron dovrà fare i conti con la società civile e difficilmente potrà assumere una posizione di retroguardia.

Indietro insomma non si torna? In Gran Bretagna, ricorda Ciccarese, ci sono parecchi segnali di una transizione energetica, come il boom del fotovoltaico e la chiusura progressiva degli impianti a carbone più vecchi e inquinanti, lo sviluppo dei grandi parchi eolici offshore, le campagne per disinvestire dalle fonti fossili. Ricordiamo ad esempio la decisione presa in tal senso dall’Università di Edimburgo a maggio 2015: stop agli investimenti nelle maggiori compagnie petrolifere.

UK e il futuro del clima

Lo scenario rimane molto complesso da decifrare. L’Europa presumibilmente andrà avanti sulla sua strada per il 2020 e oltre, cercando di far rispettare ai singoli Stati membri gli obiettivi su rinnovabili, efficienza energetica e riduzione della CO2.

A livello di conferenze ONU sul clima, spiega Ciccarese, l’approccio nato dopo il fallimento del vertice di Copenaghen è di tipo “bottom-up”, cioè quasi-volontario in cui ogni Paese decide come e quanto ridurre le sue emissioni inquinanti.

Questa formula, in buona sostanza, dovrebbe limitare l’impatto negativo di Brexit e del suo eventuale corollario di politiche pro-fossili. Un rischio concreto per la Gran Bretagna è perdere i finanziamenti UE per le attività di ricerca e sviluppo nel campo delle rinnovabili, attività in cui Londra è sempre stata all’avanguardia: stiamo parlando di circa 1,3 miliardi di euro l’anno.

Anche secondo Sergio Castellari, ex delegato italiano nei gruppi di lavoro dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) lo scenario post-Brexit è difficilissimo da prevedere. Il punto chiave è se la Gran Bretagna tra due anni uscirà definitivamente dal perimetro UE o deciderà di seguire comunque, in modo volontario, le direttive per il 2020 e 2030 con tutte le loro misure salva clima e pro rinnovabili.

Il Regno Unito (lo sarà ancora?), fuori o dentro l’Unione europea, non potrà più ignorare le dinamiche della green economy: allora auguriamoci che il buonsenso britannico possa alla fine prevalere sul ‘clima-scetticismoi dei seguaci di Farage.

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