ETS, un’idea per riformarlo facendo pagare anche i consumatori

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Da anni l’Europa dibatte sul futuro del sistema ETS. Dalla Germania una nuova proposta: mantenere l’assegnazione di quote gratuite alle industrie “pesanti” e includere i consumatori intermedi nel meccanismo, attraverso una tassa sull’acquisto di materiali ad alta intensità di carbonio.

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In Europa si continua a discutere su come riformare il sistema EU-ETS (emissions trading scheme dell’UE), il mercato della CO2 che include diversi settori industriali cosiddetti “energivori”, considerati tra i maggiori responsabili delle emissioni nocive.

L’obiettivo, com’è noto, è diminuire le emissioni di CO2 complessive stimolando un miglioramento dell’efficienza energetica nei processi produttivi. È un meccanismo cap&trade che coinvolge oltre 11.000 soggetti tra aziende manifatturiere, impianti termoelettrici e operatori aerei: c’è un tetto massimo al livello delle emissioni per ciascun partecipante, con la possibilità di acquistare o vendere quote di CO2 sul mercato, secondo le necessità.

I nodi irrisolti del sistema EU-ETS

Il problema è che per una serie di ragioni, tra cui anche la recessione economica che ha rallentato la produzione industriale, c’è stato uno sbilanciamento con un surplus di quote rispetto alla domanda effettiva.

Troppi diritti di emissione disponibili sul mercato hanno fatto crollare i prezzi della CO2 a pochi euro/tonnellata e, di conseguenza, le aziende non avevano più lo stimolo a introdurre tecnologie più efficienti per ridurre il loro impatto ambientale. Tanto che il Consiglio UE, nel 2014, aveva approvato il backloading, misura-tampone che consisteva nel ritardare l’uscita di nuovi permessi di emissione per il periodo 2014-2016, sperando così di riequilibrare domanda e offerta.

Dal 2015 il dibattito è entrato nel vivo con la proposta di modificare la direttiva ETS, in linea con l’obiettivo di tagliare le emissioni del 40% entro il 2030.

Le industrie energivore

Un aspetto controverso è sempre stato l’assegnazione gratuita delle quote alle industrie più esposte al cosiddetto carbon leakage, cioè la “fuoriuscita del carbonio”. Il rischio, infatti, è che le aziende energivore decidano di delocalizzare la produzione in Paesi extra-UE dove i costi della CO2 sono nulli.

Qui c’è un problema più generale di concorrenza, perché le aziende europee devono sopportare costi maggiori a causa delle politiche ambientali che in altre aree geografiche non sono in vigore. Tra i settori più sensibili ci sono, ad esempio, cementifici e acciaierie, che da soli fanno circa il 40% delle emissioni industriali dell’intera Europa. Non a caso, la lobby del cemento e dell’acciaio non ha mai smesso di fare pressioni sulla Commissione UE per conservare il più a lungo possibile lo status quo.

La proposta: quote gratuite e tassa sui materiali

Uno spunto per affrontare la situazione è arrivato di recente da Karsten Neuhoff, capo del dipartimento Climate Policy presso l’Istituto tedesco di ricerca economica (DIW Berlin).

Neuhoff (si veda pubblicazione in allegato in basso) parte dal presupposto che è molto difficile stabilire quante quote assegnare a titolo gratuito alle industrie. Inoltre, qualunque ipotesi di riforma dovrà bilanciare due aspetti: da un lato, evitare che il prezzo della CO2 sia troppo basso e scoraggi gli investimenti in efficienza energetica. Dall’altro, evitare che le grandi aziende europee spostino gli impianti altrove.

Secondo Neuhoff, una soluzione potrebbe essere questa: trasferire il costo delle emissioni dai produttori agli utenti intermedi e finali (IoC, inclusion of consumption).

Si tratta, in altre parole, di far condividere il problema a produttori e consumatori, ampliando il meccanismo EU-ETS. Le industrie energivore continuerebbero a ricevere un certo numero di quote gratuite, secondo i parametri determinati dalle BAT, best available technologies. Così ogni industria avrebbe il suo budget di carbonio da amministrare, con la possibilità di vendere gli eventuali diritti di emissione non utilizzati o acquistarli sul mercato, nel caso non riesca a rimanere nel perimetro imposto dalle migliori tecnologie disponibili.

Una sorta di carbon tax

L’attribuzione dovrebbe essere “dinamica”, spiega Neuhoff: il numero di quote dovrebbe essere proporzionale alla produzione, supponiamo di acciaio, dell’anno precedente, prevedendo un supplemento (sempre gratuito) di permessi per coprire eventuali incrementi produttivi dell’azienda.

Sul lato della domanda, invece, i ricercatori guidati da Neuhoff propongono di istituire una tassa sul consumo dei materiali ad alta intensità di carbonio.

In pratica, il prezzo finale di un materiale come l’acciaio o il cemento dovrebbe riflettere il suo “contenuto” implicito di CO2, sotto forma per l’appunto di una tassa/contributo ambientale pagato da chi acquista quel determinato bene. Questo dovrebbe favorire l’utilizzo più efficiente e razionale delle risorse, spostando gradualmente il consumo verso materiali con una minore intensità di carbonio.

Sarebbe anche un modo per ridare un segnale di prezzo alla CO2 dentro ciascuna filiera industriale. Come ha riassunto Neuhoff, «la tassa, poiché non discrimina tra processi e luoghi di produzione, sarebbe pienamente compatibile con le norme del WTO. Anche il rischio di esportare le emissioni sarebbe ridotto, perché la tassa non sarebbe riscossa su prodotti e materiali esportati verso terzi».

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