Il TTIP e i possibili scenari energetici che ci attendono

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Le due sponde dell’Atlantico stanno negoziando un difficile e complesso accordo commerciale per abolire dazi e barriere non tariffarie. Per il neo ministro Calenda è un’ottima opportunità per le imprese italiane ed europee, mentre chi si oppone al patto è preoccupato per i rischi ambientali e sanitari. Ecco cosa potrebbe cambiare.

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È complicato scegliere un singolo aggettivo per qualificare il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), il trattato commerciale in fase di negoziato tra Europa e Stati Uniti. Sarà un accordo utile o dannoso? Un patto benefico o inopportuno?

Da una parte c’è chi sostiene, come il neo ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, che il TTIP rappresenta una straordinaria opportunità per le imprese europee, perché istituirà un’area di libero scambio che coinvolgerà quasi un miliardo di consumatori e varrà il 47% circa del prodotto interno lordo mondiale. Dall’altra c’è un partito molto trasversale (forze politiche di destra e sinistra, associazioni ambientaliste, movimenti di cittadini) che considera il trattato alla stregua di un mostro pericolosissimo per diversi settori economici (TTIP, un disastro per clima e rinnovabili, di Mario Agostinelli).

Due mondi contrapposti

Il trattato, è bene ricordare, non riguarda solo l’abolizione completa dei dazi per favorire le esportazioni, ma anche l’abbattimento delle barriere non tariffarie, cioè le regole protezioniste e gli standard che rendono più difficile e costoso lo scambio di beni e servizi tra le due sponde dell’Atlantico. Il problema sarà conciliare e armonizzare due realtà che per tanti versi appaiono distanti anni-luce.

Pensiamo al comparto agroalimentare: negli Stati Uniti vige il principio dell’evidenza scientifica: per vietare la vendita di un alimento occorre dimostrare la sua nocività per la salute umana. Mentre in Europa vale il principio di precauzione, che impedisce l’immissione sul mercato di prodotti ritenuti potenzialmente nocivi. Un altro abisso riguarda la tutela accordata ai prodotti agroalimentari: gli Stati Uniti proteggono soltanto il marchio di fabbrica e ignorano il concetto europeo dell’indicazione geografica, con tutto il suo bagaglio di qualità e reputazione collegato a un determinato territorio.

Ecco perché si teme un’invasione di cibi americani di dubbia qualità, dal pollo al cloro al manzo agli ormoni, passando per imitazioni di formaggi italiani (tipo l’Asiago prodotto nel Wisconsin), pomodori geneticamente modificati e vini contraffatti.

Quali prospettive in campo energetico?

Simili divisioni si ritrovano anche in campo energetico e ambientale: quali scenari potrebbero aprirsi con la firma del TTIP?

Proviamo a capirlo, con l’avvertenza però che gli elementi d’incertezza sono moltissimi per la natura stessa del trattato, i cui contenuti potranno subire cambiamenti anche profondi nei prossimi round dei negoziati. I documenti visti finora, quelli pubblicati da Greenpeace e quelli in consultazione presso il ministero dello Sviluppo Economico, anche se per un tempo molto limitato e senza alcuna possibilità di divulgazione, sono fondamenta ancora traballanti. Inoltre, non va dimenticato che l’esito dell’accordo dipenderà da chi sarà eletto nuovo presidente americano.

Shale gas e sicurezza degli approvvigionamenti

Un primo ordine di considerazioni si concentra sulle fonti fossili. Gli Stati Uniti, nonostante la svolta green lanciata da Obama e l’intensificarsi degli investimenti in tecnologie pulite, hanno puntato moltissimo sullo sfruttamento delle risorse definite “non convenzionali”, che richiedono una particolare tecnica estrattiva, il fracking (fratturazione idraulica): semplificando molto, significa pompare una miscela d’acqua e sostanze chimiche nel sottosuolo, per spaccare gli scisti e consentire così la fuoriuscita del gas.

Come evidenzia Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, il boom americano dello shale gas ha permesso agli Stati Uniti di proporsi come Paese esportatore di questo combustibile. Lo scorso anno, inoltre, Obama ha rimosso il divieto all’export di greggio. Quella storica decisione è dipesa dall’altro boom produttivo sul fronte degli idrocarburi, che negli ultimi anni ha interessato anche i giacimenti petroliferi (shale oil e sabbie bituminose).

«Uno scenario che si potrebbe aprire con un trattato di libero scambio – spiega allora Tabarelli – è un incremento dell’offerta di gas dagli Stati Uniti verso l’Europa. Quest’ultima avrebbe il vantaggio di ridurre la sua dipendenza dalle forniture dalla Russia e da zone geografiche a elevata instabilità geopolitica, come la Libia».

Chiaramente una prospettiva di questo tipo imporrebbe all’Europa di darsi nuove regole e favorire nuovi investimenti per potenziare le infrastrutture necessarie all’importazione di Gnl, soprattutto rigassificatori e porti.

Dal carbone alle rinnovabili: rischi e opportunità

Il rischio, quindi, è che l’Europa faccia entrare dalla finestra quello che sta cercando di far uscire dalla porta, cioè i combustibili fossili più inquinanti. Perché non stiamo parlando solo di shale gas con tutte le sue controversie sull’uso del fracking, che, non a caso, in Europa finora non è decollato per via dei timori sui possibili impatti ambientali.

Come ricorda Vittorio Chiesa, direttore dell’Energy & Strategy Group del Politecnico milanese, gli Stati Uniti hanno iniziato ad esportare parecchio carbone a basso costo, non più competitivo sul mercato interno proprio a causa dell’abbondanza di shale gas. Carbone a buon mercato che potrebbe essere accettato con favore dai Paesi europei in cui più massiccia è la presenza di vecchie centrali termoelettriche, ad esempio la Polonia.

Secondo Chiesa, il grande punto di domanda è se gli Stati Uniti rivolgeranno maggiore attenzione alla tutela della salute umana e alla protezione ambientale. Non va dimenticato, infatti, che l’America non ha mai ratificato il protocollo di Kyoto e solo di recente, nell’ambito della Cop21 parigina, ha iniziato a discutere con un certo impegno sulle azioni per combattere i cambiamenti climatici.

«L’energia – prosegue Chiesa – è un settore regolato. Prima di aprirlo al libero scambio, le parti coinvolte dovrebbero condividere norme ambientali e obiettivi comuni sulla riduzione delle emissioni, la diffusione delle rinnovabili e l’aumento dell’efficienza». Solo così, osserva il direttore dell’Energy & Strategy Group, l’Europa potrebbe cogliere dei vantaggi importanti in un accordo come il TTIP.

Come afferma Tabarelli, «l’Europa dovrà valorizzare il tesoro di competenze tecnologiche accumulato dalle sue aziende nel campo delle rinnovabili e dell’efficienza energetica. Pensiamo all’eolico, al fotovoltaico, allo storage elettrico, al solare termodinamico e alla geotermia, senza dimenticare l’esperienza acquisita nei servizi di manutenzione degli impianti».

Bruxelles, termina Chiesa, dovrà porre molta attenzione a non trasformare il TTIP in un accordo a senso unico, che promuova l’export di gas (e magari petrolio e carbone) dagli Stati Uniti verso l’Europa senza un opportuno bilanciamento a vantaggio delle nostre imprese.

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