“Previsioni irragionevoli”: la replica dell’Unione Petrolifera

  • 30 Maggio 2016

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La replica dell'UP all’articolo “Le irragionevoli previsioni dell’Unione Petrolifera e il cannocchiale di Galileo” di G.B. Zorzoli, pubblicato da QualEnergia.it nei giorni scorsi. UP: “Non è nostra intenzione sollevare polemiche, ma rispondere nel merito alle considerazioni espresse nell’articolo”. La risposta di Zorzoli.

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Riceviamo da Unione Petrolifera e volentieri pubblichiamo una replica all’articolo “Le irragionevoli previsioni dell’Unione Petrolifera e il cannocchiale di Galileo” dello scorso 23 maggio (neretti dal testo inviatoci). In fondo alla nota di UP una controreplica di G.B. Zorzoli).

L’Ufficio Rilevazioni e Analisi di Unione Petrolifera (UP) è fra i pochi, se non l’unico, che espone pubblicamente i risultati delle proprie analisi, che non sono mai predeterminate o finalizzate a supportare tesi precostituite.

Le previsioni, che UP aggiorna ogni anno da oltre 30 anni, non sono “vincolate” al raggiungimento di obiettivi più o meno stringenti come generalmente accade nella formulazione degli scenari, ma valutano i possibili trend evolutivi dei principali consumi finali, basandosi anche sulle opinioni di chi opera nelle altre fonti di energia e su una disamina attenta delle possibilità di diffusione delle nuove tecnologie, nonché sulla fattibilità degli scenari energetici che vengono elaborati in sede europea per il nostro Paese, coinvolgendo chi dovrà poi dar seguito a determinati impegni.

Questa è la metodologia che UP ha sempre adottato, la cui attendibilità è riconosciuta dalle Istituzioni e da organi accreditati. È evidente che i risultati derivanti da un tale metodo di analisi possono non essere condivisi da chi segue l’onda del facile consenso, scambiando i propri desiderata per realtà senza alcun supporto scientifico.

Vediamo allora di chiarire puntualmente la metodologia di lavoro.

Carbone

Partiamo dalle centrali a carbone. Nell’immediato le nostre previsioni recepiscono correttamente l’uscita di vari impianti, la cui chiusura era già stata pubblicamente resa nota al 31 marzo scorso (data di chiusura delle elaborazioni – la potenza installata scende dai 9.310 MW del 2015 a 8.700 nel 2018).

In riferimento alla potenza installata al 2025, confrontando le stime attuali con quelle di qualche anno prima (ad esempio marzo 2012), in cui si ipotizzava una loro crescita fino a 11.000 MW, ci si rende conto che sono già state eliminate da tempo dal modello tutte quelle nuove centrali che erano nei piani di sviluppo di alcuni operatori fino a poco tempo fa.

Spesso però lavorando solo sui numeri ci si dimentica che ogni realtà produttiva è fatta di uomini. Decretare per le rimanenti un’irreversibile fuoriuscita dal mercato, peraltro non ancora certa, implica scelte di politica industriale e sociale che non spettano agli uffici studi.

Anticiparne una loro chiusura solo per orientare i risultati e renderli più lodevoli per qualcuno, non è nel nostro modus operandi.

Gli usi del carbone nelle centrali rimanenti sono quindi modulati in funzione della convenienza economica con le altre fonti; non trascuriamo che gli attuali prezzi bassi del petrolio possano invertire la rotta, perché dal minimo di gennaio ad oggi (fine maggio) le quotazioni hanno già recuperato 23$/b (+60%) e, sulla base delle stime di maggiore consenso, si ritiene che tra il 2025 e il 2030 si possa tornare sulla fascia 90-100 $, il che darebbe nuovo vantaggio all’uso del carbone. La stessa Enel, per sua dichiarazione, attualmente ottiene in Italia più del 50% della sua produzione elettrica dal carbone.

Ad ogni modo, negli ultimi scenari RSE, al 2030 la produzione di carbone è prefigurata fra 33 e 62 TWh, rispettivamente nello scenario di Policy e di Riferimento: nelle previsioni UP è inferiore a 43 TWh, in presenza di valori della tonnellata di CO2 non molto distanti da quelli attuali.

Se poi negli altri usi finali del carbone vogliamo già dare per scontata la fine dell’ILVA, di tutti gli impianti siderurgici e dei cementifici italiani, ove effettivamente sta avvenendo la sostituzione con altre fonti (molto limitatamente con le rinnovabili), anche in questo caso le previsioni UP svolgerebbero un improprio ruolo di “monito politico”.

Domanda elettrica

Per quanto riguarda la domanda elettrica, nello scenario di sviluppo Terna ipotizza pari a 354 TWh al 2025, mentre in quello UP essa si ferma a 341 TWh, tornando ad un livello analogo al 2007. 

Per rimanere in ambito scenari elettrici, fra il 2010 e il 2030 per UP l’incremento della domanda, al netto delle perdite di rete, è di 17 TWh contro i 54 e 28 TWh previsti dai due scenari Riferimento e Policy elaborati a fine 2015 da RSE. 

L’aumento previsto dalle previsioni UP non ci sembra così “astronomico”, dato che 5 TWh in più la domanda li può registrare anche in un solo anno (come nel 2015). 

La visione che UP ha del futuro è comunque di uno scenario di miglioramento del quadro economico, in cui la maggiore produzione industriale spinge ad un recupero, sebbene parziale, dei volumi di energia (compresi quelli di gas) persi durante la crisi.

Forse siamo considerati troppo ottimisti per questo? O “di parte” perché essendo appartenenti ad un’Associazione come Confindustria auspichiamo che l’industria possa tornare a dare un forte contributo alla crescita del nostro Paese? 

Rinnovabili

Torniamo ai numeri sulle FER, oggi tanto acclamate. UP è ampiamente convinta che avranno un ruolo crescente nel mix energetico futuro, ma particolarmente in alcuni usi e non in tutti. Inoltre, il 2025-2030 è “domani” e, stando agli ultimi dati del GSE, gli incrementi della potenza installata sono sempre meno ampi e pertanto le proiezioni sulla loro crescita sono comunque coerenti. 

Le stesse società finanziarie hanno ridimensionato le loro aspettative sulle rinnovabili: lo scenario Moody’s al 2020 ne ipotizza una produzione di 124 TWh (UP, che da alcuni viene indicata come “parte avversa”, 128 TWh).

Che l’Italia sia diventata meno “appealing” sulle rinnovabili è certificato anche dalla classifica Ernst & Young del maggio scorso, che nell’indice di attrattività RECAI (Renewable Energy Country Attractivenss Index) posiziona il nostro Paese al 25° posto della classifica, rispetto al 5° che aveva nel 2012. 

Elementi di cui occorre tenere conto se si vuole rimanere con i piedi per terra nel formulare le indicazioni per il futuro. Comunque, se volessimo dare loro tutto lo sviluppo che si desidera, c’è solo una domanda a cui bisognerebbe rispondere: “dove sono le coperture economiche per i maggiori costi rispetto a quelle fossili?”

Emissioni 

Passiamo alle emissioni. Secondo le nostre previsioni, al 2030 le emissioni tornano su un livello analogo a quello dello scorso anno, ma a fronte di una popolazione superiore di 2,5 milioni di persone, con un Pil che nello stesso periodo dovrebbe aumentare di circa il 19% rispetto al 2015 e, comunque, in presenza di un consistente miglioramento dell’efficienza in tutti i settori: complessivamente del 23% rispetto al 2005, di cui oltre la metà sarà ottenuto in questi prossimi 15 anni. 

È poco? Certamente dipende dal tasso di diffusione, più o meno spinto, che si ipotizza potranno avere le varie tecnologie disponibili. 

Negli scenari di decarbonizzazione, per traguardare l’obiettivo, occorre necessariamente “forzare” i numeri e prevedere un’ampia diffusione di quelle più efficienti. Nelle nostre previsioni ci atteniamo ai valori che sembrano più realistici, soprattutto per quanto riguarda i futuri mezzi di trasporto.

Trasporti

Qualcuno pensa che UP abbia qualche forma di resistenza ideologica alle innovazioni, quali celle/idrogeno o quant’altro. 

In realtà, se si avesse voglia di sfogliare le precedenti edizioni del nostro esercizio previsivo, ad esempio quello di febbraio del 2000, si noterebbe una ipotesi di 100mila auto elettriche al 2015 e 200mila a celle a combustibile alla stessa data. La realtà ha dimostrato che eravamo stati sin troppo ottimisti e dunque senza alcuna preclusione ideologica. 

Nel febbraio 2005, ipotizzavamo per il 2020 anche 30mila auto ad idrogeno, che, pur apparendo all’epoca minimali rispetto al parco circolante, oggi risultano addirittura ampiamente sovrastimate visto che ne circolano pochi esemplari.

Eppure allora la tecnologia del futuro era ritenuta quella ad idrogeno: nel 2002 J. Rifkin la dava per imminente (nel suo libro si leggeva che le “fondamenta dell’economia dell’idrogeno sono già gettate. Nei prossimi anni la rivoluzione informatica e delle telecomunicazioni, associata a quella imminente dell’energia dell’idrogeno, costituirà un mix di tale potenza da riconfigurare radicalmente le relazioni umane nel corso del ventunesimo e ventiduesimo secolo”), a 14 anni di distanza non ha prodotto praticamente nessun risultato concreto. 

Ciò dovrebbe insegnarci a non seguire facili illusioni, alimentate magari dai successi dei prototipi di laboratorio, almeno fintanto che essi non cominciano a tradursi in realtà evidenti, con una diffusione tale da poterne misurare gli sviluppi. E’ la realtà tecnologica ed economica dell’oggi che necessariamente, in misura più o meno spinta, orienta il domani.

Il lavoro che riteniamo fondamentale nell’elaborazione delle nostre previsioni, è anzitutto capire perché la realtà dell’anno appena concluso è stata diversa dalle nostre attese, nonché valutare se esistono elementi sufficienti a convincerci della loro concreta possibilità di diffusione su ampia scala delle nuove applicazioni tecnologiche: a quel punto ne valutiamo l’impatto nel modello. 

Se sinora la “Tesla”, con una produzione di 50.000 auto, ha comunque perso 320 milioni di dollari solo nel 2015, è legittimo che sorga qualche dubbio sul fatto che le altre case automobilistiche ritengano l’auto elettrica davvero una tecnologia già matura ed economicamente accettabile per tutti.

Per quanto riguarda le batterie al litio che, secondo lo studio citato del Climate Council of Australia (Battery Storage for Renewable Energy and Electric Cars, 2015), avrebbero avuto un salto tecnologico tale da far decrescere il costo ad una velocità tale da anticipare al 2022, cioè tra poco meno di 6 anni, la competitività dei veicoli elettrici, va ricordato che lo stesso studio a pagina 12 afferma anche che: “Lithium-ion batteries are an important component of modern technology, powering phones, laptops, tablets and other portable devices when they are not plugged in. They even power electric vehicles. But to make batteries that last longer, provide more power, and are more energy efficient, scientists must find battery materials that perform better than those currently in use”.

Questo sta a significare che finora non c’è stato alcun salto tecnologico delle batterie che alimentano le vetture elettriche nella fase attuale e che le batterie al litio hanno raggiunto il massimo sviluppo tecnologico (per motivi fisici-chimici). Con la loro produzione su vasta scala potranno ridursi i costi di produzione, ma difficilmente scenderanno al di sotto dei 200 $/kWh. 

In ogni caso, anche se scendessero sotto questa soglia, la loro efficienza non sarà mai tale da assicurare una autonomia significativa alle vetture elettriche. In queste condizioni l’auto elettrica presenta ancora le seguenti caratteristiche:

  • seconda auto
  • auto solo da città
  • mai prima auto di famiglia
  • valore residuo del veicolo molto basso o nullo.

Lo sviluppo di massa della mobilità elettrica potrà avvenire solo quando ci sarà un reale salto tecnologico nelle batterie, cosa che finora non è avvenuta nonostante i più importanti centri di ricerca mondiali stiano investendo ingentissime risorse economiche ed umane su queste ricerche da almeno 40 anni. 

Lo scenario RSE sulle auto elettriche, per loro stessa ammissione, è peraltro solo un’ipotesi massima teorica di diffusione di tali auto, per valutare le capacità di tenuta e sostenibilità della rete elettrica.

Ad ogni modo, nello scenario prefigurato da UP, gli incrementi medi annuali del parco delle auto ibride sono previsti aumentare fino al doppio e fino al triplo dei valori delle immatricolazioni attuali, rispettivamente al 2025 e al 2030. Per le auto elettriche gli incrementi alle due date sono di ben 8 e 10 volte superiori. 

A meno che non si voglia ipotizzare una diffusione di questa tipologia di auto sostenuta da ampi incentivi pubblici, ma anche in questo caso si tratterebbe di scelte politiche che non sono di competenza UP, anche perché tali politiche di incentivazione avrebbero un doppio effetto sul bilancio dello Stato: al supporto economico per ogni vettura andrebbe sommato il mancato gettito derivante dai carburanti tradizionali sostituiti.

Si pensi che nella ricca Norvegia (97.067 $/pro-capite, contro i 35.239 dell’Italia, secondo i dati del FMI riferiti al 2014), punta di diamante per la diffusione delle auto elettriche (secondo i dati ANFIA 15.432 EV immatricolate nel 1° trimestre di quest’anno, contro le 838 in Italia, di cui le elettriche pure sono poco più di 400), il Governo norvegese ha pianificato la durata delle esenzioni fiscali per tali auto fino al solo 2017, mentre già nel triennio successivo la loro tassazione si allineerà a quella delle auto tradizionali. 

Solo un’ultima osservazione sul tema: la stampa ha dato ampia diffusione all’iniziativa dei Governo tedesco di puntare ad avere 1 milione di auto elettriche al 2020 attraverso ingenti risorse. Ma si ha idea di quante siano le auto circolanti in Germania? Oltre 44 milioni e 400 mila, a queste vanno aggiunti altri 3 milioni e 240mila camion.

Ebbene, se anche 2 milioni di elettriche circolassero in Germania al 2020, gli altri 45 milioni di veicoli (tralasciando poi quelli a 2 ruote) con che cosa si pensa di volerli alimentare? 

L’industria petrolifera è ben conscia che le altre fonti di energia, per motivi ambientali e/o di bilancio, eroderanno la quota del petrolio in quello che è rimasto il suo “core business”, cioè i trasporti di merci e persone, ma non si ritiene sia il caso di dare al petrolio una imminente fine negli scenari, anche da quelli fatti con i potenti telescopi del Monte Palomar con cui qualcuno elabora i propri (di cui fra l’altro non circola neanche una tabella che ne supporti le conclusioni): rischiamo di rimanere tutti a piedi! 

E questa non è una constatazione di UP, ma un riscontro che chiunque può fare, basandosi su una qualità che forse qualche “scienziato” ha un po’ perso nel tempo: il sano buon senso. E comunque le analisi di UP proseguiranno con lo stesso rigore metodologico, pronte a cogliere i reali segnali del mercato e dell’evoluzione tecnologica.

Unione Petrolifera


La riposta di GB Zorzoli

In merito alla replica dell’Unione Petrolifera, osservo innanzi tutto che:

  1. Nel mio articolo non si dà “per scontata la fine dell’ILVA, di tutti gli impianti siderurgici e dei cementifici italiani”, ma solo di utilizzo di altre fonti al posto del carbone. Ad esempio in alcuni impianti siderurgici il gas ha già sostituito il carbone nella riduzione dei minerali ferrosi.
  2. Non ho definito “astronomico”, né commentato in alcun modo il dato UP sulla domanda elettrica, che ovviamente considero condivisibile, visto che l’ho utilizzato per dedurre il dato relativo alla produzione nazionale.
  3. Sulle rinnovabili e sulle emissioni mi sono limitato a osservare che le previsioni UP sono in contrasto con gli impegni già assunti dall’Italia, in quanto qualsiasi previsione seria non può ignorare decisioni politiche di tale portata. UP non le condivide? Allora, perché non lo mette nero su bianco?
  4. Per i trasporti non ho mai parlato di “celle/idrogeno”, bensì di veicoli elettrici alimentati da batterie. Come ho scritto sul portale di QualEnergia.it, recensendo l’ultimo libro di Rifkin, considero l’opzione idrogeno un vicolo cieco. Le previsioni UP del 2005, riportate nella replica, dimostrano che in materia UP aveva formulato una valutazione dimostratasi errata. Eppure sarebbe bastato leggere l’articolo che il sottoscritto (uno “scienziato” che ha un po’ perso il sano buon senso) aveva scritto un anno prima, nel 2004, sulla rivista “Energia”, diretta dal prof. Clô: un articolo già ironico dal titolo (La promessa idrogeno), in cui demolivo le tesi di Rifkin.

Infatti, è stato sempre un mio difetto proprio non seguire “l’onda del facile consenso”, col risultato di attirarmi critiche e a volte contumelie, al cui confronto la replica dell’Unione Petrolifera è un amichevole buffetto.

Nell’ordine, ecco qualche altro esempio:

  1. Nel 1976 (Il dilemma energetico, Feltrinelli, p. 127) già individuavo nell’effetto serra la principale sfida allo sviluppo energetico per cui “le nuove fonti di energia vanno esaminate in funzione delle opportunità che offrono di minimizzare gli effetti negativi sull’ecosistema”. Liquidato come “zorzolate” da una rivista.
  1. Nel 1977 (Proposte per il futuro, Feltrinelli, p. 108) già prefiguravo “uno sviluppo dualistico del sistema energetico”, con “una razionale ripartizione di compiti fra un sistema centralizzato per la produzione di energia … e un analogo sistema decentrato”. Questa volta andò peggio: rischiai di perdere il posto di lavoro.
  2. Nel 1992, quando la produzione elettrica italiana proveniva per il 78,2% da centrali termiche di tipo tradizionale (nemmeno un ciclo combinato), 20,2% era idrica, 1,5% geotermica, 0,1% fra eolico e fotovoltaico. 63,5% della produzione termica utilizzava olio combustibile, 19,9% gas (bruciato in caldaie tradizionali, quindi in modo inefficiente), 12,0% carbone e lignite, mentre il resto era ripartito fra fonti energetiche minori, sul numero 47 della rivista “Economia delle fonti di energia” scrissi un articolo che, dato il contesto, suonava provocatorio: “Un nuovo mercato per l’energia elettrica”.  Basandomi sulle traiettorie tecnologiche ed economiche nel decennio precedente dei cicli combinati, dell’eolico e del fotovoltaico, prevedevo una loro evoluzione futura che le avrebbe portate a dominare il mix produttivo, rendendo la generazione elettrica ecosostenibile: “gli sviluppi tecnologici in atto sottolineano le potenzialità (tecnologiche, energetiche, ambientali) di mercati paralleli all’attuale per l’utilizzo dell’energia elettrica. È questa una rivoluzione, anche concettuale, rispetto a un modo di pensare che, giustamente, tenuto conto delle tecnologie disponibili, considerava da evitarsi per quanto possibile gli usi elettrici non obbligati”. E individuavo due principali mercati paralleli: la domanda termica nei settori domestico e terziario, grazie alle potenzialità delle pompe di calore, e la mobilità elettrica. Oggi queste conclusioni (salvo che per la mobilità elettrica) sono diventate senso comune, ma allora un autorevole guru le definì un discreto racconto di fantascienza.
  3. Nel 1997 (Il sistema elettrico e le nuove sfide tecnologiche, Editori Riuniti, pp. 54-55) affermavo che i criteri contenuti nella Direttiva europea dell’anno precedente, sulla liberalizzazione del mercato elettrico, avrebbero favorito i cicli combinati, come si è puntualmente verificato.
  4. Nel 2006 (La bolla del ciclo combinato, Staffetta Quotidiana, 15 luglio), prevedendo già allora la sovraccapacità per eccesso di cicli combinati, scrivevo testualmente: “Un marziano arrivato sulla terra e dotato di una sana cultura liberista non avrebbe difficoltà a rispondere: si verificherà una competizione spietata … Alcuni dei produttori finiranno inevitabilmente per chiudere bottega (o almeno un certo numero di impianti)”. L’amministratore delegato di una società elettrica liquidò l’articolo con giudizi sul sottoscritto molto più duri di quelli contenuti nella replica dell’Unione Petrolifera.

Mi fermo qui (ma potrei continuare a lungo, ricordando ad esempio che sono stato uno dei primi, in Italia, a scrivere sulle potenzialità dello shale gas). Gli esempi citati dimostrano che, in quanto a capacità previsionale, posso vantare un certo credito. Se la salute mi assiste, fra qualche anno mi divertirò a confrontare le previsioni dell’Unione Petrolifera con il reale andamento del settore energetico.

G.B. Zorzoli

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