Duro scontro Usa-India sul fotovoltaico. Proseguirà davanti al WTO

L’India invierà al WTO 16 casi contro gli Stati Uniti. In ballo ci sono le clausole che salvaguardano la produzione locale di tecnologie e dispositivi nel campo delle fonti rinnovabili. Nuova Delhi ha un traguardo: 100 GW di solare fotovoltaico entro il 2022.

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La battaglia del solare tra Stati Uniti e India continua. La prossima mossa spetta al colosso asiatico, il cui governo ha confermato che potrebbe presentare al WTO, l’organizzazione mondiale del commercio, 16 casi contro gli Stati Uniti. L’India, lo ricordiamo, ha lanciato nel 2010 un piano solare tra i più ambiziosi al mondo, perché l’obiettivo è raggiungere 100 GW di potenza installata entro il 2022, partendo da una percentuale bassissima di fonti rinnovabili. Con questo piano il governo indiano intende risolvere alcuni problemi cronici del suo sistema energetico, come la scarsa elettrificazione di vaste zone rurali, frequenti blackout, predominanza del carbone nel mix di approvvigionamento.

Per assolvere la sua “missione solare”, l’India ha predisposto varie misure per sostenere chi investe nel fotovoltaico (stiamo parlando dei progetti utility-scale di grande taglia), in particolare attraverso i contratti d’acquisto a lungo termine (PPA, power purchase agreements). Il governo si impegna ad acquistare l’energia generata dai parchi fotovoltaici, pagando un prezzo prefissato ai produttori per un certo numero di anni. Nel programma, però, c’è anche una clausola cosiddetta buy-local: i produttori di energia solare, per ottenere gli incentivi, devono soddisfare alcuni requisiti di contenuto domestico.

In altre parole, gli operatori sono obbligati a utilizzare celle e moduli fabbricati in India per determinati tipi di progetti fotovoltaici. Non è certo una novità: la Cina, per esempio, ha sfruttato simili requisiti per diversi anni, allo scopo di avvantaggiare i costruttori cinesi di turbine eoliche e altri dispositivi.

Perfino gli Stati Uniti ricorrono spesso a clausole di tutela per l’industria nazionale, sempre nel settore dell’energia pulita. Moltissimi Stati americani, infatti, nei loro programmi per le fonti rinnovabili hanno previsto misure in qualche modo protezioniste, perché salvaguardano le tecnologie made in Usa a scapito di quelle straniere. L’obiettivo, in India come negli Stati Uniti, è analogo, cioè promuovere la creazione di nuovi posti di lavoro locali e sviluppare aziende sempre più innovative e in grado di competere a livello internazionale.

Così nel 2013 è andata in scena la prima puntata della disputa: gli Stati Uniti hanno portato il programma solare indiano davanti al WTO, sostenendo che l’India aveva violato le regole del commercio internazionale, favorendo in modo indebito i prodotti fabbricati dalle sue industrie. Le aziende americane si sentivano penalizzate, a causa delle restrizioni imposte da Nuova Delhi sulle importazioni di celle e moduli.

L’India si era giustificata con due argomentazioni a difesa della sua clausola buy-local: la prima faceva leva sulla necessità di rispettare le norme nazionali e internazionali per la crescita economica sostenibile e la lotta ai cambiamenti climatici. La seconda, invece, faceva appello al “government procurement”: l’acquisto di componenti made in India era lecito perché quegli stessi componenti non servivano a produrre altri beni destinati alla vendita. Insomma, lo scopo delle misure non era commerciale (realizzare un profitto extra), ma strettamente legato a un obiettivo di politica pubblica.

L’Organizzazione mondiale del commercio però ha dato ragione alle lamentele americane, con un dettagliato rapporto pubblicato nei mesi scorsi. A questo punto, L’India non solo ha deciso di ricorrere in appello al WTO, ma anche di minacciare gli Stati Uniti con una seconda puntata della controversia. Ecco perché il governo indiano è pronto a contestare davanti al WTO 16 casi di violazioni americane delle regole internazionali, come ha confermato di recente il ministro indiano del Commercio, Nirmala Sitharaman. Vediamo se sarà davvero così, o se i due paesi avvieranno dei negoziati.

Intanto, fa notare un analista citato da PV Magazine, la norma indiana in discussione non ha sortito finora gli effetti sperati da Nuova Delhi. L’industria locale, lungi dall’essere esplosa come auspicato dai politici indiani, finora è riuscita a coprire solo un 5% scarso dell’intera domanda di celle e moduli FV in India. Il rischio poi è che nessuno esca realmente vincitore da una prolungata battaglia legale/commerciale di questo tenore.

La vera sfida per l’India, con ogni probabilità, è creare le condizioni per un mercato del fotovoltaico sempre più concorrenziale, in cui la scelta delle tecnologie sia basata essenzialmente sulla qualità e sul prezzo dei dispositivi, piuttosto che sulla loro provenienza.

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