Trivelle, ma neanche uno straccio di strategia energetica

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Il governo non ha alcuna strategia per la decarbonizzazione al 2050, quel piano che servirebbe oggi ad indicare gli investimenti per un modello energetico sostenibile. Gianni Silvestrini, in qualità di Presidente del Coordinamento Free, spiega perché con il referendum è in gioco anche la strategia energetica del paese.

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Uno degli argomenti più utilizzati dai fautori delle trivellazioni riguarda gli impatti occupazionali che deriverebbero dalla vittoria dei SI al referendum. In effetti, le ricadute ci sarebbero ma, contrariamente alle preoccupazioni amplificate dalle industrie del comparto, in senso decisamente positivo.

La sospensione delle estrazioni al termine delle concessioni riguarderebbe infatti il ricollocamento, dopo le operazioni di messa in sicurezza dei pozzi, di un numero limitato di persone nell’arco di una decina di anni. La chiusura delle attività di estrazione entro le 12 miglia vedrebbe, d’altra parte, un progressivo aumento di occupati sul versante della pesca e del turismo.

In realtà, la partita che si gioca il 17 aprile è destinata ad avere una valenza ben più elevata, anche dal punto di vista dei posti di lavoro che si potranno creare. Come già successo nel caso del referendum sul nucleare, l’intera strategia energetica del paese verrebbe rimessa in discussione

Allora si impedì una scelta che avrebbe fatto gettare al vento miliardi euro in investimenti inutili (si stanno chiudendo 23 centrali, figuriamoci se si fossero completate quelle nucleari) e avrebbe portato l’Enel sull’orlo del fallimento proprio mentre gli scenari energetici  mondiali  andavano in un’altra direzione.

Anche oggi, si tratta di cogliere l’accelerazione in atto dopo la COP21 che si sta manifestando in scelte coraggiose che vanno dalla Cina all’India, dagli Usa alla Germania. L’Italia, invece, è tra i pochi paesi assolutamente impermeabili al forte  messaggio di trasformazione partito da Parigi. 

Ed esattamente una settimana dopo il referendum, il 22 aprile Giornata mondiale della Terra, Renzi volerà a New York per partecipare alle Nazioni Unite alla raccolta delle adesioni formali all’Accordo sul Clima. Ma ci andrà a mani vuote, a meno che gli annunci come quello del premier Renzi di volere raggiungere in tempi brevi la quota del 50% di produzione elettrica da rinnovabili (un primo risultato del referendum) si traducano rapidamente in strumenti concreti.

L’Italia finora ha potuto esibire risultati interessanti sulle rinnovabili e sulla riduzione delle emissioni. È come se il governo dicesse: abbiamo già dato. Ma si tratta di un grave errore politico e di prospettiva, che si riflette anche nella posizione assunta sul referendum. 

Non è che le politiche di Obama, Merkel, Xi Jinping siano esenti da contraddizioni: pensiamo alle problematiche ambientali statunitensi del fracking, all’uso della lignite tedesca, all’inquinamento delle città cinesi. Ma sono leaders che danno l’impressione di avere una visione che li ha portati ad avviare una profonda trasformazione dei sistemi energetici.

Quello che manca a noi è proprio questo. Non abbiamo uno straccio di scenario di decarbonizzazione al 2050 che ci dica se certi investimenti siamo sensati o meno. Manca un percorso che indichi come arrivare agli obiettivi al 2030. E rispetto alla richiesta di Germania, Francia, UK e Parlamento europeo di alzare gli obiettivi 2030, noi stiamo con la Polonia che non vuole toccare i modesti obiettivi su efficienza e rinnovabili, malgrado i risultati di Parigi (sotto 2 °C, possibilmente verso 1,5 °C) impongano un salto di qualità.

Le ricadute di un cambio di marcia coerente con gli impegni di Parigi potrebbero in effetti essere straordinarie.

Gli ultimi quattro anni hanno infatti visto prevalere un atteggiamento punitivo nei confronti delle rinnovabili e dell’efficienza energetica e una scarsa attenzione sui nuovi fronti che si stanno aprendo a livello internazionale, come quelli della riqualificazione spinta degli edifici o della mobilità elettrica.

Nei prossimi mesi l’Italia saprà, nell’ambito della Effort Sharing Decision, quale sarà la sua quota di riduzione del 30% delle emissioni non ETS al 2030 rispetto al 2005. Questo obiettivo imporrà un deciso salto di qualità, considerando che, a livello europeo, si stima che con le attuali politiche le riduzioni arriveranno solo al 20%. E per di più, dopo i risultati della Conferenza di Parigi, è probabile che gli obiettivi europei al 2030 verranno innalzati.

Ricapitolando, l’impatto occupazionale della progressiva chiusura dei pozzi sarà trascurabile. Al contrario, i risultati del referendum lancerebbero un messaggio forte al governo, come già successo in passato con il referendum sul nucleare, per l’avvio di una nuova strategia energetica, una svolta che potrebbe garantire un forte numero di nuovi occupati.

La nostra valutazione è che si potrebbero attivare almeno 100.000 posti di lavoro grazie ad una svolta su diversi fronti: dalla riqualificazione spinta dell’edilizia, passando al retrofit di interi edifici e quartieri a fianco agli interventi su singoli appartamenti, alle biomasse termiche accompagnate da politiche sulla gestione sostenibile del patrimonio forestale; dallo sviluppo del biometano con un potenziale quadruplo rispetto alla produzione di gas nazionale estratto entro le 12 miglia, al revamping dell’eolico accompagnato da realizzazioni di nuovi parchi, inclusi quelli off-shore; dal fotovoltaico in abbinamento con sistemi di accumulo, allo sviluppo della mobilità elettrica.

In questi e altri comparti ci sono tutte le possibilità per garantire un ruolo incisivo dell’Italia, con soluzioni innovative in grado di valorizzare il know how delle nostre imprese anche a livello internazionale dove si sta giocando una partita tutta spostata verso le tecnologie della decarbonizzazione. Ricordiamo che gli investimenti mondiali sulle rinnovabili nel 2015 sono stati del 60% più elevati della somma di quelli delle nuove centrali elettriche a carbone, a gas e nucleari.

Un altro elemento su cui fare chiarezza riguarda le grandezze in gioco.

La domanda di metano è in drastico calo, con un taglio del 27% tra il 2005 e il 2014. Stesso trend per la domanda petrolifera. Tra il 2000 e il 2014 la riduzione è stata del 39%.

Se si sfruttassero tutte le riserve certe e anche quelle probabili (50% di possibilità di produzione) si garantirebbero due anni di consumi di gas e tre anni di petrolio (i valori relativi ai giacimenti entro le 12 miglia sarebbero decisamente più bassi, in particolare per il petrolio).

Le 48 piattaforme di produzioni attive nella produzione di metano più 5 di supporto (5 estraggono anche petrolio, una di queste solo petrolio) presenti entro le 12 miglia hanno contribuito nel 2015 per il 27% alla produzione nazionale di metano, cioè al 2,7% della domanda nazionale (10 giorni di consumi di metano), mentre la produzione di petrolio è stata pari all’1% dei consumi di greggio (4 giorni di consumi di petrolio), pari a tre petroliere in un anno.

Nel merito del quesito referendario bisogna segnalare come esso riguardi l’automatico allungamento delle concessioni a scadenza che, se passasse, comporterebbe due gravi conseguenze: la possibilità di sfruttare tali giacimenti sempre nei limiti della franchigia, eludendo il dovuto versamento delle royalties, e l’elusione dell’obbligo di smantellamento delle piattaforme che, in assenza di termine resterebbero sine die.

Va poi sottolineato un fatto su cui si fa spesso confusione. Il gas e il petrolio estratti sono di proprietà delle società, italiane e straniere, che li estraggono e li vendono poi all’Italia, o ad altri paesi, a prezzi di mercato. Il nostro paese dunque deve mettere su un piatto della bilancia le tasse e le royalties (molto basse rispetto ad altri paesi e che, grazie alle franchigie concesse, vengono pagate solo da un quarto delle piattaforme operanti entro le 12 miglia) a fronte dei danni alla pesca, al turismo e a quelli ambientali.

Su questi occorre avere un quadro chiaro, visto che emergono in continuazione elementi preoccupanti. Per ultimo il caso, legato all’impatto sulla subsidenza, che ha portato il consiglio comunale di Ravenna, città da sempre schierata a favore delle trivellazioni, a chiedere la chiusura della piattaforma Angela Angelina.

In conclusione crediamo che sia opportuno lanciare un segnale forte al governo, che ha gestito male la vicenda delle trivellazioni mettendosi contro importanti Regioni e che sta perseguendo una politica energetico ambientale di retroguardia, affinché ci sia un drastico ripensamento allineato con l’evoluzione in atto a livello internazionale. 

Cambiare approccio non solo favorirebbe l’indipendenza energetica e la riduzione delle emissioni climalteranti, ma sarebbe decisivo per dare fiato all’economia e rilanciare l’occupazione.

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