I privilegi delle società del petrolio e del gas in Italia

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Solo negli ultimi anni leggi finanziarie e decreti d'urgenza, incluso lo Sblocca Italia, hanno steso "tappetini" a chi estrae petrolio e gas in Italia: concessioni a vita per le piattaforme, royalties bassissime, costi minimi per aree in concessione, 250 milioni di € di finanziamenti da enti pubblici. Le osservazioni di Legambiente.

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Governi e grandi gruppi energetici sono da sempre legati in maniera strettissima, tanto da renderli agli occhi della politica pressoché inscindibili. Si capisce ad esempio da come parla il nostro presidente del consiglio e del suo linguaggio “primo-novecentesco” riguardo al tema dell’energia. Ieri non ha potuto evitare di dire che “l’Italia ha raggiunto il massimo possibile di rinnovabili”. Neanche commentabile. Se non per dire che chi ha questo pensiero poi agisce di conseguenza.

La cronaca di questi giorni, con l’emendamento che intendeva sbloccare Tempa Rossa e che ha coinvolto un ministro della Repubblica e sicuramente molti altre persone anche legate al governo, è solo uno degli esempi degli atti di questo esecutivo a favore della lobby degli idrocarburi.

Come ha dichiarato Edoardo Zanchini, vice presidente di Legambiente, in questi anni diverse leggi finanziarie e decreti sono serviti per stendere tappetini a chi estrae petrolio e gas: le concessioni a vita per le piattaforme (e nessun controllo sullo smantellamento) introdotte nella Legge di Stabilità 2016, le royalties irrisorie (e deducibili dalle tasse), i costi minimi per le aree in concessione, i quasi 250 milioni di euro in investimenti e finanziamenti da enti pubblici.

Pe parlare solo di fatti recenti ricordiamo lo “Sblocca Italia” che sembra scritto da Assomineraria. L’obiettivo di fondo era togliere ogni barriera alle concessioni per l’estrazione di fonti fossili e ogni competenza a Regioni e Enti Locali nelle procedure, provando anche a ridurre, fino al massimo consentito dalle Direttive europee, il ruolo delle valutazioni ambientali.

“Nel 2016 i privilegi di cui godono i petrolieri sono insopportabili per ragioni di giustizia e di difesa dai cambiamenti climatici – ha dichiarato Zanchini – Tanto più che le fonti rinnovabili, efficaci e competitive da un punto di vista economico, vengono frenate da questi privilegi e da assurde nuove barriere che ne impediscono la diffusione in un Paese che avrebbe tutto da guadagnare nel diventare sempre meno dipendente dalle fossili e dalle importazioni. La transazione verso l’energia pulita sarebbe il processo più logico e sensato se il nostro ministero dello Sviluppo economico non fosse in realtà un ministero del Petrolio stile anni Cinquanta”.

C’è ora la questione del referendum che nasce, come ormai molti sanno, dall’ultima Legge di Stabilità 2016 in cui venivano vietate, sì, tutte le nuove attività entro le 12 miglia marine, ma si rendevano validi fino a tempo illimitato tutti i titoli abilitativi già esistenti, di fatto per poter utilizzare i giacimenti fino al termine della produzione.

“Un bel regalo alle compagnie petrolifere che oggi possono quindi estrarre petrolio e gas entro le dodici miglia a loro piacimento, senza alcun limite di tempo, senza dover interpellare nessun altro ente competente e senza doversi preoccupare troppo dell’obbligo di smantellamento delle piattaforme e di ripristino dello stato inziale dei luoghi, legato, con questa norma, alla fine delle attività. Fine che solo le compagnie petrolifere decideranno”, dice il vice presidente di Legambiente.

Le royalties in Italia sono pari solo al 10% per il gas e al 7% per il petrolio in mare. Ma ci sono giacimenti che non versano queste tasse perché ci sono delle assurde franchigie che valgono per le prime 20mila tonnellate di petrolio prodotte annualmente su terraferma, per le prime 50mila tonnellate di petrolio prodotte in mare, per i primi 25 milioni di mc di gas estratti in terra e per i primi 80 milioni di mc in mare. In questi casi per le compagnie di estrazione è tutto gratis. Nel 2015 su un totale di 26 concessioni produttive solo 5 di quelle a gas e 4 a petrolio, hanno pagato le royalties. Tutte le altre hanno estratto quantitativi tali da rimanere sotto la franchigia e quindi non hanno versato nulla a Stato, Regioni e Comuni.

Stiamo parlando quindi di piccole cifre, soprattutto per la Basilicata, la più devastata a livello ambientale dalle perforazioni e anche una delle regioni più povere del paese. Come abbiamo documentato spesso anche su QualEnergia.it, questo denaro spesso non arriva ai Comuni, a fa diversi giri, tra Stato e Regione, e solo le briciole arrivano alle amministrazioni che vivono all’ombra delle trivelle. Persino la Corte dei Conti ha dichiarato che le royalties sono servite finora solo per la spesa corrente. Qui c’è anche una forte responsabilità delle amministrazioni comunali e regionali, che oltre a non difendere con forza il proprio territorio, hanno fatto passare sotto silenzio tutto questo per qualche ritorno occupazionale, scontando però ingenti perdite economiche e di posti di lavoro nel settore agro-alimentare e turistico.

Questo stato di fatto ha spinto molto compagnie straniere a entrare nel business del petrolio nostrano. Ma, come spiega Zanchini, all’estero ci sono ben altre condizioni. “In Danimarca dove non esistono più royalties, ma si applica un prelievo fiscale per le attività di esplorazione e produzione, questo arriva fino al 77%. In Inghilterra può arrivare fino all’82%, mentre in Norvegia è al 78% a cui però bisogna aggiungere dei canoni di concessione”.

Se in Italia avessimo portato le royalties al 50% (proposta avanzata da Legambiente), nel 2015 ci saremmo trovati invece che con un gettito di 352 milioni di euro con uno da 1.408 milioni. Le royalties si possono poi dedurre dalle tasse: altro regalo a beneficio delle sole imprese che estraggono idrocarburi.

Legambiente ricorda poi che anche i canoni per la prospezione, ricerca, coltivazione e stoccaggio sono bassissimi: dai 3,59 € a kmq per le attività di prospezione, ai 7,18 € per i permessi di ricerca, fino ai 57,47 € circa a kmq per le attività di coltivazione. Secondo l’associazione serve un aggiornamento che introduca cifre finalmente adeguate, come quelle adottate da altri Stati europei: almeno 1.000 €/kmq per la prospezione, 2mila € per le attività di ricerca fino a 16mila € per la coltivazione. In questo modo le compagnie petrolifere potrebbero versare alle casse dello Stato oltre 300 milioni di euro rispetto all’attuale milione.

Poi ci sono 246 milioni di euro in investimenti e finanziamenti da enti pubblici (fonte: The fossil fuel bailout: G20 subsidies for oil, gas and coal exploration – pdf, a cura di Overseas Development Institute): sono aiuti erogati sotto forma di investimenti e finanziamenti da enti pubblici come Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) e Servizi Assicurativi del Commercio Estero (Sace). A questi aiuti indiretti vanno aggiunti quelli più diretti legati alla riduzione dell’accisa sul gas naturale impiegato negli usi di cantiere, nei motori fissi e nelle operazioni di campo per la coltivazione di idrocarburi, pari a 300mila euro nel 2015 e previsti in egual misura fino al 2018.

Da tempo poi l’associazione ambientalista porta avanti una campagna per il biometano, l’alternativa più concreta e sostenibile al gas di origine fossile (vedi anche Speciale QualEnergia.it). Al contrario di quanto avviene in Germania, per esempio, dove è consentito ad aziende agricole o discariche che ottengono biometano di immetterlo nella rete, da noi è al momento impossibile. Dopo diversi anni mancano ancora i passaggi tecnici per fissare le regole di immissione stabilite dal ministero dello Sviluppo economico e dall’Autorità per l’energia. Perché questo ritardo?

Secondo il Consorzio italiano biogas (CIB) le potenzialità sono considerevoli: si potrebbe superare il 13% dei consumi e creare 12mila posti di lavoro, in particolare al Sud.

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