Trivelle, trattati e TTIP: la parola ai cittadini

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Cosa c'entra il referendum del 17 aprile sulla durata delle concessioni per le estrazioni e le esplorazioni oil & gas in mare con l'Accordo Transatlantico sul commercio e con gli arbitrariati “Investor-State Dispute Settlement”? Ospitiamo un articolo che prova a spiegarlo: lo scontro tra interesse pubblico e multinazionali.

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Il 17 aprile 2016 si vota. Tutta la cittadinanza sarà chiamata alle urne per esprimersi sul quesito referendario contro una modifica del Codice dell’Ambiente che favorisce le trivelle. Cioè le attività di estrazione petrolifera al largo delle coste, che secondo una modifica dell’ultima legge di Stabilità possono prolungare la loro concessione all’infinito, anziché avere una durata “solo” di trent’anni.

La questione va inquadrata in un contesto più vasto. Le attività di estrazione di materie prime (miniere, petrolio, e simili) sono fra quelle più remunerative nel panorama attuale: la rivista statunitense Fortune collocava il settore al vertice, superato solo da servizi legali e altri servizi per il mondo del business.

Al tempo stesso si tratta di alcune delle pratiche più inquinanti che esistano, che generalmente causano forte attrito con le popolazioni e autorità locali. Queste se cedono, tendono a “vendere cara la pelle” con sostanziosa riscossione di compensi e con un certo grado di garanzie sulla vigilanza e tutela dei danni alla salute umana e agli ecosistemi. Fra tali esigenze e le aspettative di profitto si tende a creare una dialettica politica.

La Legge di Stabilità approvata a fine 2015, che completa logicamente la visione dello Sblocca-Italia, è una indubbia vittoria dei settori dei lobbisti legati ai potentati economico-finanziari più forti. Il referendum e i comitati attivi rappresentano la risposta di cittadini, società civile e forze ecologiste e anticorporative.

Fare capire agli attivisti e all’uomo della strada la connessione fra le regolazioni dell’ambiente e tutto il retroterra di conseguenze (mari inquinati, salute umana minacciata, animali ammalati, ambiente contaminato) e dei complessi accordi di carattere giuridico-legale è una impresa dura. Ma va tentata.

Dall’estate del 2013 l’Unione europea e gli USA sono impegnati in un complesso negoziato destinato a diventare (per loro) la NATO del commercio: il TTIP, più sempicemente “Accordo Transatlantico”.

Parallelamente, una fitta rete di comitati ed attivisti è impegnata a contrastarlo, facendo opera di divulgazione del suo reale significato. Una volta spiegate le sue implicazioni le persone tendono spostarsi, inferocite, su posizioni di contrarietà oltranzista. Immaginiamo che ci sarà un motivo per cui i media ne parlano così poco – o, meglio, quasi mai.

Il Trattato è forse la cosa più importante che stia succedendo in Europa, eppure una consegna del silenzio pare essere calata sull’informazione ufficiale.

Nelle numerose assemblee e interventi pubblici, le persone rimangono particolarmente basite quando vengono a sapere che lo Stato potrebbe essere portato in tribunale da una multinazionale che non gradisce una legge fatta a tutela dei cittadini. Lo Stato? In tribunale? Ma com’è possibile? E chi gli dà questo potere? Sarà una fantasia complottista?
No. È vero, invece.

La sigla che corrisponde a tale questione è ISDS: Investor-State Dispute Settlement (Risoluzione delle controversie investitore-Stato). Si tratta di accordi di tutela degli investitori esteri che nel caso di leggi o provvedimenti “sgraditi” possono trascinare gli Stati presso organismi di arbitrato sovranazionali.

La logica sarebbe quella per cui l’investitore vuole tutele da decisioni arbitrarie: espropriazioni illegittime, regolamentazioni vessatorie, e simili; non fidandosi dei tribunali locali pretende di poter ricorrere ad una autorità terza. Naturalmente se ciò appare comprensibile in caso di paesi con forti rischi di instabilità, guerra civile o simili, per un paese come la Francia o l’Italia tale motivazione non sembra credibile.

In realtà tali accordi teoricamente includerebbero la reciprocità. Ma in realtà il contesto originario era un forte squilibrio in termini di forza economica e potere. Il primo accordo del genere venne stipulato fra la Germania Ovest e il Pakistan nel 1959 e per quanto fosse possibile sulla carta, risulta difficile immaginare che una azienda pakistana potesse davvero pensare di portare la potenza teutonica all’arbitrato.

Nel caso in cui ciò avvenga la multinazionale di turno annuncia allo Stato qual è il foro arbitrale in cui si dovrà tenere il giudizio, e quello deve difendersi. Si costituisce quindi una sorta di tribunale privatistico, composto da esperti di diritto commerciale che nella cornice legale dell’arbitrato medesimo (che viene scelto dall’azienda stessa), in mancanza di un accordo può dare multe piuttosto salate allo Stato colpevole; la Russia è stata condannata a pagare circa 50 miliardi di dollari.

Tali tribunali, oltre che godere di uno splendido isolamento giuridico (le norme inerenti a diritti umani, diritto del lavoro, dell’ambiente e simile non hanno valenza vincolante) sono piuttosto opachi e poco trasparenti.

Chi li difende indica il fatto che lo Stato non perde tento spesso, in fondo. Ma il dato è falsato: accanto ai casi in cui effettivamente la difesa trionfa e la multinazionale torna a casa a mani vuote, ci sono quelli in cui tutto si conclude con un “accordo amichevole”.

Che significa che il governo ha ceduto ed ha pagato in parte la somma richiesta come remunerazione. A volte non ci sono nemmeno i dati per cui non è dato sapere di quali somme si stia parlando. È altamente possibile che di alcuni arbitrati in corso non si abbia nemmeno notizia, perché non ci sono regole restrittive sulla trasparenza e pubblicità di essi, la qual cosa in ogni civiltà giuridica sarebbe considerata oltraggiosamente illegittima.

Teoricamente le corti arbitrali non possono modificare le leggi ma solo obbligare al pagamento dei danni. Nel 2012 per esempio l’Argentina ha dovuto difendersi da una multinazionale spagnola per aver nazionalizzato una azienda locale, ed è stata costretta a sborsare 5 miliardi alla multinazionale europea che la controllava. Il Messico invece ha dovuto pagare 15 milioni di dollari ad una transnazionale statunitense che non gradiva troppo una restrizione per motivi ambientali…

In realtà l’entità dei risarcimenti è tale da scoraggiare l’approvazione di leggi che possano dar luogo a controversie legali o spingere alla loro cancellazione.

Come evidenzia una ricerca del 2013 dell’Institute for Policy Studies  di Washington, il numero di arbitrati in materia di ambiente e risorse naturali è drammaticamente in crescita. Già adesso la difesa dell’ambiente da profitti e speculazioni non è delle più facili; con l’adozione del TTIP la strada già molto impervia si farebbe drammaticamente in salita.

(Articolo originariamento pubblicato sul blog Zeroviolenza.it, riprodotto con il consenso dell’autore)

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