Referendum, votare “Sì” per non farsi sfuggire un’occasione

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Il referendum sulle trivellazioni petrolifere in mare può rappresentare l’occasione per avviare un profondo ripensamento della nostra strategia energetica. Il petrolio è il passato, il futuro è fatto di efficienza energetica, rinnovabili, mobilità elettrica. Le ragioni per votare “Sì” domenica 17 aprile. Un articolo di Gianni Silvestrini.

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In tutto il mondo si abbandonano progetti di nuove esplorazioni e trivellazioni a causa delle bassissime quotazioni del greggio e del metano. L’ultima notizia viene dalla vicina Croazia dove il nuovo premier, Tim Oreskovic, ha annunciato una moratoria nell’Adriatico. Anche alcune società che volevano esplorare i nostri mari hanno fatto marcia indietro. Il referendum sulle trivellazioni, pur nei tempi strettissimi concessi, può rappresentare un’occasione per analizzare l’evoluzione del mondo dei fossili e per riflettere sulla debolezza della nostra politica energetica, sulle scelte da fare e sugli investimenti da evitare.

Ricordiamo il precedente del 2011, quando il “no” al nucleare con il 94% dei voti riuscì a bloccare per tempo una scelta che avrebbe fatto bruciare al Paese miliardi di euro per impianti atomici che non sarebbero mai stati completati, in un contesto di sovraccapacità produttiva e domanda elettrica calante. E che salvò, tra l’altro, l’Enel dal rischio di diventare una “bad company”.

Anche oggi dobbiamo tornare a guardare in avanti e ritrovare una prospettiva vincente, partendo dal ruolo dei combustibili fossili nel nuovo scenario climatico apertosi dopo Parigi. Secondo un recente rapporto di Carbon Tracker, un centro studi supportato dalle fondazioni Rockefeller e Bloomberg, nei prossimi 10 anni una mole di ben 1,8 triliardi di dollari rischia di essere buttata al vento in uno scenario al 2035 coerente con gli obiettivi climatici.

In pratica, un quarto degli investimenti totali nel settore “oil and gas” è a rischio. In un percorso di decarbonizzazione spinta, l’Eni vedrebbe 37 miliardi $ messi in discussione.

Un secondo elemento delicato riguarda l’andamento della domanda, in particolare nel settore petrolifero. L’incremento dell’efficienza dei veicoli e, soprattutto, il prossimo boom dell’auto elettrica prefigurano infatti un rapido raggiungimento di un picco dei consumi.

Ma né le implicazioni degli accordi sul clima, né le dinamiche della domanda sembrano influenzare le strategie delle multinazionali petrolifere. Nel suo ultimo rapporto, la Exxon prevede una crescita del consumo di greggio del 20% al 2040. In realtà, qualche dubbio inizia a serpeggiare, e le società più attente diversificano i propri investimenti. La norvegese Statoil, ad esempio, si è lanciata nel comparto dell’eolico off-shore galleggiante.

Tornando all’Italia, ci troviamo di fronte ad una mancanza di strategia francamente incomprensibile dopo l’Accordo sul clima e dopo le scelte di decarbonizzazione che molti Paesi stanno compiendo.

Prevale un atteggiamento di caparbia ostilità nei confronti delle rinnovabili e dell’efficienza energetica, che ha messo in ginocchio il settore facendo perdere decine di migliaia di posti di lavoro negli ultimi quattro anni. E le prospettive future non sono migliori: la crescita delle energie pulite nei prossimi due anni sarà praticamente azzerata. In compenso, però, vogliamo trivellare.

Aldilà delle obiezioni sui rischi, sugli impatti ambientali e sulle criticità dal punto di vista “climatico”, questa scelta risulta poco significativa per il Paese.

Alcuni commenti di Leonardo Maugeri, già responsabile delle strategie dell’Eni, sono chiarificatori in questo senso. “L’Italia ha una dotazione molto modesta di idrocarburi. Le uniche riserve di una certa consistenza si trovano nell’Alto Adriatico (gas naturale) e Basilicata (petrolio). Per il resto parliamo di piccoli giacimenti che in nessun modo potrebbero contribuire a rendere l’Italia meno dipendente dal petrolio e dal gas importati. E quando la trivellazione ha per oggetto formazioni dalle prospettive modeste rischia di diventare una sorta di accanimento terapeutico contro il sottosuolo e l’ambiente“.

Peraltro va chiarito che gli idrocarburi estratti non sono “nostri”, come spesso si legge, ma sono immessi sul mercato a cui accediamo noi, esattamente come i tedeschi o i greci. Certo, ricaviamo delle royalties, 340 milioni €/anno, però queste sono molto basse rispetto a quelle di altri Paesi.

Ma, soprattutto, va sottolineato come si potrebbero aprire fronti notevolmente più interessanti per il nostro Paese dal punto di vista economico e occupazionale.

Ecco, allora, che il referendum può rappresentare l’occasione per avviare un profondo ripensamento.

A partire dalla definizione di una strategia climatica che indichi come raggiungere gli obiettivi al 2030 legandoli alla battaglia sull’inquinamento delle città, al rilancio dell’agricoltura, alla creazione di un’industria agganciata alle tecnologie green. E riflettendo sui percorsi necessari per decarbonizzare l’economia al 2050, in modo da evitare l’errore di colossali investimenti, “stranded”, totalmente inutili. Gli sbagli commessi nel settore elettrico, con la chiusura forzata di centrali nuovissime, dovrebbero essere di monito.

La sensazione è che manchi la percezione di come il mondo stia rapidamente cambiando, facendo quindi perdere occasioni storiche.

Citiamo tre soli esempi. Nel mondo dell’edilizia si deve passare dalle riqualificazioni di singoli appartamenti, alla “deep renovation” di interi edifici e quartieri, con riduzioni dei consumi del 60-80%. Un’operazione che consentirebbe di risparmiare una quantità di metano superiore all’attuale produzione nazionale e di recuperare una parte rilevante del mezzo milione di occupati nell’edilizia persi negli ultimi otto anni.

Nel settore dei trasporti, come già detto, siamo alla vigilia di una forte crescita della mobilità elettrica che potrebbe portare a 10 milioni di veicoli al 2030, circa un quarto del parco totale. Questo scenario, che ovviamente avrebbe bisogno di una regia aggressiva, consentirebbe di ridurre i consumi di petrolio di 3,4 Mtep/anno.

Considerati anche i 2,5 Mtep/a evitati grazie alla maggior efficienza del parco veicoli, il calo delle domanda di carburanti alla fine del prossimo decennio sarebbe superiore all’attuale produzione nazionale di greggio.

Il terzo focus riguarda il solare. Sono ormai molti i Paesi che hanno avviato con successo l’abbinamento tra fotovoltaico e accumulo, visto il crollo dei prezzi di entrambe le tecnologie. In Germania si prevedono 200.000 batterie accoppiate al solare al 2020. Una soluzione che consente di gestire meglio la produzione fotovoltaica e di offrire servizi alla rete.

E si potrebbe continuare con molti altre suggestioni. Per cogliere le opportunità delle “tecnologie dirompenti” in arrivo, il nostro Paese dovrebbe dunque attrezzarsi seriamente. Restando ai settori citati, si dovrebbe avviare la ristrutturazione degli edifici anche attraverso forme di industrializzazione della riqualificazione e andrebbe favorito l’avvio di una produzione nazionale di veicoli elettrici. 

La diffusione di sistemi di accumulo abbinati al fotovoltaico, scelta strategica per raggiungere gli obiettivi al 2030-50, dovrebbe essere adeguatamente preparata, a partire dal raddoppio degli investimenti nella ricerca delle energie pulite, come l’Italia ha promesso di fare a Parigi insieme ad Usa, Cina e altri 18 Paesi, aderendo alla “Mission Innovation”.

Ecco perché dobbiamo utilizzare il referendum, oltre che per la difesa dei nostri mari, anche per avviare il confronto per una seria strategia climatica. Per superare l’incredibile cappa di silenzio dei media e la mortificante inerzia del governo. E per ridare respiro alle politiche energetiche, industriali e agricole. Insomma, per rilanciare un modello di sviluppo che si è inceppato.

(L’editoriale sarà pubblicato anche in apertura del nuovo numero de La Nuova Ecologia, lo abbiamo anticipato su queste pagine per gentile concessione dei colleghi del mensile).

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