Clima e rinnovabili, quali opportunità dopo la CoP21?

L’economista inglese Paul Ekins, direttore dell’Institute for Sustainable Resources all’University College London, ha spiegato a Milano quali sono le opportunità di investimento nelle tecnologie low carbon dopo la CoP 21. Indispensabili politiche forti per orientare i comportamenti del mondo finanziario.

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In che modo la finanza può aiutare la battaglia iniziata a Parigi per affrontare i cambiamenti climatici e come può contribuire a promuovere lo sviluppo delle tecnologie a basso contenuto di carbonio in un’ottica di uscita dalle fonti fossili. Questi i temi affrontati ieri mattina dall’economista inglese Paul Ekins, Direttore dell’Institute for Sustainable Resources all’University College London (UCL), in un intervento all’Università Bocconi di Milano nell’ambito del convegno “Post COP21 Scenarios”.

Nel corso della sua presentazione, il prof. Ekins ha sottolineato l’importanza dell’accordo sottoscritto a Parigi da tutti i Paesi presenti: «Questo accordo rappresenta la speranza che l’umanità possa realmente affrontare il problema dei cambiamenti climatici – ha affermato -. Uno degli elementi che ritengo di maggiore rilevanza, e che ha mostrato come ci fossero da parte di tanti attori coinvolti la voglia e l’interesse di arrivare a un accordo, è stato che la maggior parte dei Paesi ha comunicato gli impegni che intendeva prendere (INDC-Intended Nationally Determined Contributions) prima del Summit di Parigi. Questo ha significato cambiare la logica di governance, con un approccio bottom-up invece di quello top-down tipico dei negoziati in cui i Paesi sono forzati ad accettare riduzioni vincolanti nelle emissioni».

Le risorse necessarie per difendere il clima

Ogni anno le risorse che sono investite nel settore energetico a livello mondiale raggiungono gli 89 trilioni di dollari (89.000 miliardi di dollari). «Per rimanere al di sotto dei 2 gradi centigradi di incremento della temperatura globale, gli investimenti in tecnologie a basso contenuto di carbonio, come rinnovabili ed efficienza, dovrebbero essere di almeno 3 trilioni di dollari l’anno – ha sostenuto Ekins -. Secondo BNEF (Bloomberg New Energy Finance) ogni anno si investono in tecnologie low carbon circa 330 miliardi di dollari: questo vuol dire che dobbiamo incrementare di dieci volte gli investimenti in tecnologie low carbon. Nel 2050 potremo avere senza grossi problemi un sistema elettrico a zero emissioni ed è importante capire come riallocare fin da subito le risorse che già oggi vengono investite in energia, cioè quegli 89 trilioni di dollari complessivi. Mi aspetto, ad esempio, che la prossima generazione di miliardari sarà costituita dagli investitori nei sistemi di accumulo».

Per rispettare gli accordi di Parigi, è anche importante iniziare a lasciare le fonti fossili nel terreno, senza sfruttarle. Secondo i dati mostrati dall’economista inglese, da qui al 2050 si dovrebbero emettere complessivamente al massimo 1.000 Gton di CO2: ma se tutte le riserve provate di fonti fossili fossero sfruttate, allora emetteremmo almeno dieci volte questa quota. «Abbiamo calcolato quante riserve di fonti fossili dovrebbero rimanere sottoterra per stare sotto i 2 oC – ha affermato Ekins -. Stimiamo il 33% delle riserve di petrolio, il 48% di quelle di gas e l’82% di quelle di carbone. In certi Paesi il gas può ancora giocare un ruolo di fonte ponte per sostituire il carbone, ma in altri contesti assolutamente no. Nel Regno Unito l’uso del carbone sta diminuendo velocemente e non abbiamo più riserve di questa fonte, per cui dovremmo già passare alle rinnovabili. In Paesi dove il carbone contribuisce ancora in larga parte alla produzione di elettricità, come la Cina, l’Australia e il Brasile, il discorso è diverso. Per rimanere al di sotto dei 2 gradi dovremmo prevedere una diminuzione annua di almeno il 3% delle emissioni CO2».

Perché Copenaghen ha fallito e Parigi è stato un successo?

Sono tanti i motivi per cui Parigi ha rappresentato un momento di svolta positiva nell’ambito dei negoziati sul clima, come evidenziato da Ekins nel suo intervento. «Per prima cosa tutti i Paesi sono stati coinvolti nell’accordo finale e non si è parlato più di Paesi vincolati agli obblighi (quelli dell’Annex 1 del Protocollo di Kyoto) e di Paesi esclusi. Cruciale anche l’accordo che era stato sottoscritto tra Stati Uniti e Cina prima della Conferenza di Parigi. E poi c’è stato il ruolo innovativo dei piccoli Paesi: l’autorità morale e le competenze diplomatiche di un Paese come le Isole Marshall sono state determinanti per porre al centro dell’attenzione le esigenze di queste nazioni. Per la prima volta invece di dividersi tra Paesi ricchi e Paesi poveri, le nazioni si sono divise tra chi è già direttamente toccato dai cambiamenti climatici e chi invece li vede come un problema futuro».

A Parigi si è parlato anche di opportunità  di mercato e non soltanto d’impegni, come invece si era fatto a Copenaghen, e anche questo ha contribuito al raggiungimento dell’accordo. Una delle decisioni più rilevanti è stata la creazione di un fondo da 100 miliardi di dollari annui per investimenti in tecnologie low carbon.

«Questo è un passo positivo, ma 100 miliardi non sono niente se vogliamo affrontare seriamente i cambiamenti climatici – ha però spiegato l’economista -. Dobbiamo arrivare al punto in cui il prezzo delle tecnologie low carbon diventi più basso di quello delle fonti fossili e purtroppo negli ultimi 18 mesi non si è vista una riduzione consistente dei prezzi delle rinnovabili, a differenza di quello che è successo per le fonti fossili. D’altra parte, il basso prezzo del petrolio è oggi un’opportunità per introdurre delle carbon tax in tanti Paesi senza danneggiare i consumatori finali e mi auguro che il prezzo del petrolio rimanga a sufficienza basso affinché le aziende petrolifere cancellino definitivamente i progetti di nuove perforazioni nell’Artico e nei mari profondi. Ma per ottenere un sistema energetico realmente low carbon servono le giuste scelte di policy – ha proseguito -. Sono quindi necessarie delle efficaci regolamentazioni dei mercati energetici, in cui prevedere una carbon tax. Il divario tra il prezzo odierno del carbonio e quello che avremo al 2050 è enorme: nelle nostre stime, nel 2050 si potrebbe addirittura arrivare anche a una cifra di 600 dollari per tonnellata di CO2 per rimanere al di sotto dei 2 gradi».

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