Il settore delle fossili impreparato alla sfida del clima

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Le aziende del settore dei combustibili fossili appaiono impreparate alla transizione imposta dalla variabile climatica. Le strategie dei grandi gruppi energetici sono state finora solo sfiorate dal rischio climatico, come dimostrano i 950 miliardi $ investiti nei fossili nel 2013. Ma cosa succederà da qui in avanti? Un articolo di Gianni Silvestrini.

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L’attenzione nei confronti delle aziende e degli Stati che basano le loro fortune sui combustibili fossili, in particolare sul greggio e sul carbone, si dovrà accentuere dopo la COP21. Infatti, visto che larga parte delle riserve fossili dovrà rimanere nel sottosuolo, il valore dei giacimenti sarà sempre più a rischio. Nella battaglia contro i rischi dei cambiamenti climatici occorrerà rifocalizzare l’attenzione sul fronte dei consumi energetici e accentuare gli sforzi sul versante dell’estrazione dei combustibili fossili.

Ci siamo preoccupati in passato di stimolare gli interventi di efficienza energetica e la crescita delle rinnovabili. Dobbiamo accelerare su questo versante, correggendo però alcuni limiti connessi con il controllo delle emissioni. Gli accordi sul clima, a iniziare dal Protocollo di Kyoto per finire con gli impegni al 2030, comportano infatti alcune distorsioni, visto che non si conteggiano le emissioni legate ai prodotti importati.

L’Europa, per esempio, tra il 1990 e il 2014 ha visto una riduzione del 23% delle emissioni climalteranti ma, conteggiando anche quelle legate all’import/export, si sarebbe invece evidenziato un incremento del 5%. Occorrerà dotarsi di strumenti per incidere in maniera più completa sulle emissioni, per esempio una carbon tax generalizzata o un’imposta sul carbonio aggiunto, un’Iva sui prodotti che contabilizzi le emissioni di CO2 connesse alla loro produzione.

Occhi puntati sulla produzione dei fossili

Nella prossima fase si dovrà poi prestare una crescente attenzione all’estrazione dei combustibili fossili. Le azioni di Greenpeace per bloccare le esplorazioni artiche della Shell, come pure la decisione di Obama di bloccare il progettato oleodotto Keystone, proprio con motivazioni climatiche, vanno in questa direzione. E la campagna internazionale “Divest Fossil”, che invita a dismettere le azioni delle aziende impegnate nel petrolio e nel carbone, è destinata a espandersi. Si tratta di un impegno globale, con un riflesso anche nel nostro Paese. Il referendum sulle trivellazioni che si potrebbe tenere nel 2016 rende utile l’approfondimento di questi temi.

Le strategie dei grandi operatori sono state finora solo sfiorate dal rischio climatico, come dimostrano i 950 miliardi $ investiti nei fossili nel 2013. Quale gruppo ha finora inserito nei propri piani industriali i vincoli imposti dal dimezzamento delle emissioni climalteranti nei prossimi 35 anni? Nessuno, o quasi, perché si è convinti che non si arriverà a scelte così radicali. In effetti, analizzando gli scenari delle multinazionali al 2030, solo la norvegese Statoil ha considerato possibile una riduzione dei consumi. In tutti gli altri casi si ipotizzano dinamiche non coerenti con gli impegni previsti da pressoché tutti i Paesi per la COP21. Ci si tranquillizza ritenendo che ci sarà sempre bisogno di una quota di combustibili fossili, che sarà soprattutto il carbone a venire penalizzato e che i tempi della transizione saranno molto lunghi. Per la Exxon è «altamente improbabile» che gli obiettivi climatici vengano raggiunti. Da qui, la diffusione dei bollettini di vittoria sulle nuove riserve trovate.

Ma le perplessità si stanno allargando. Il Segretario generale dell’Ocse ha avvertito che gli investimenti dei decenni passati e quelli programmati rischiano di creare un groviglio di interessi inestricabile. E sia l’Agenzia Internazionale dell’Energia, sia la Banca mondiale non perdono occasione per suggerire la necessità di eliminare progressivamente i sussidi di cui godono i combustibili fossili.

Un’azione climatica sul versante dell’estrazione dei combustibili fossili è tanto più importante in una fase in cui sono possibili contraccolpi negativi. Parliamo per esempio del “paradosso verde”. A fronte del rischio di un accordo più rigido sul clima, le multinazionali e le compagnie di Stato potrebbero essere tentate di massimizzare gli utili aumentando la produzione di petrolio e carbone prima di una loro forzata contrazione.

Risultato: prezzi ribassati, incremento della domanda e delle emissioni. In fondo, non è quello che sta succedendo con la rigida posizione saudita in presenza di un eccesso di offerta di greggio e il conseguente stimolo ai consumi legato al crollo del prezzo del petrolio?

Basse quotazioni di carbone, petrolio e metano

Per motivi diversi fra loro, le quotazioni dei combustibili fossili in questo momento sono al ribasso e lo saranno prevedibilmente ancora per diversi anni. I prezzi del carbone e del greggio sono tre volte inferiori rispetto ai picchi del 2008 e 2014, mentre quelli del gas naturale si sono dimezzati in Europa e si sono ridotti di quattro volte negli Usa.

Nel caso del carbone, sono i crescenti limiti ambientali e il successo delle rinnovabili a limitarne l’impiego, dagli Usa alla Cina. Petrolio e metano vedono invece una domanda debole sia per il contesto economico di alcuni Paesi che per l’efficacia delle misure di efficienza e la crescita delle rinnovabili. Si aggiunge l’influenza del successo del fracking nelle scelte saudite che stanno determinando un eccesso di offerta di greggio sulla scena mondiale. Quali implicazioni derivano per l’ambiente e il clima?

Si chiudono miniere di carbone e si abbandonano le produzioni di petrolio più a rischio, dall’Artico alle sabbie bituminose. Sospiro di sollievo. Ma i bassi prezzi non danneggiano efficienza, rinnovabili e mobilità elettrica? Sappiamo che queste soluzioni sono sempre meno costose, una tendenza che continuerà anche nel medio e lungo periodo. Ma certo, vista la riduzione degli incentivi in molti Paesi, ci si dovrà porre il problema della competizione impari con i combustibili fossili. Dobbiamo fare i conti, infatti, non solo con le esternalità ambientali assolutamente sottovalutate, ma anche con i sussidi al consumo dei fossili presenti in diversi Paesi.

In questo quadro si spiega l’insistenza con cui viene avanzata la proposta di introdurre un prezzo del carbonio, meglio sotto forma di una carbon tax che avrebbe, in questa fase, una limitata incidenza sui prezzi finali. Secondo un recente studio del Fondo Monetario Internazionale, l’enorme vantaggio di cui godono sotto varia forma carbone, petrolio e metano vale 5.300 miliardi $/anno, pari al 6,4% del Pil mondiale. Un valore dieci volte maggiore rispetto all’ammontare dei sussidi diretti calcolati dalla IEA, perché tiene conto anche dei danni alla salute e all’ambiente.

A fronte di questo contesto favorevole per il mondo fossile, fanno ridere i 120 miliardi $/a destinati alle rinnovabili. Appare quindi ragionevole la penalizzazione della CO2, per consentire una competizione corretta delle tecnologie verdi e per evitare i rischi del “paradosso verde” sopra descritto.

Far cambiare rotta ai transatlantici

Gli Usa garantiscono generosamente sussidi annui per 37 miliardi $ ai produttori di combustibili fossili (21,6 dal Governo centrale e dai singoli Stati, 11 ai consumi e 5 per le esplorazioni all’estero). In queste cifre non sono incluse le ingenti spese militari per difendere i pozzi e per le missioni di guerra in aree ricche di greggio. C’è chi, al contrario di incentivi per le estrazioni, chiede una compensazione per lasciare il greggio nel sottosuolo. Ci aveva provato l’Ecuador, puntando a evitare la produzione di mezzo miliardo di barili di greggio in un’area a Parco naturale dietro il compenso di 350 milioni $/a per dieci anni, ma l’iniziativa è naufragata.

In realtà, la molla che farà cambiare la strategia del settore fossile è intrinsecamente legata ai pericoli che sempre più chiaramente ne mettono in discussione il suo stesso futuro. Il governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney, considerando gli enormi rischi legati ai cambiamenti climatici, ritiene che le aziende dovrebbero pubblicizzare le loro strategie per evidenziare i pericoli per gli azionisti connessi con scelte sbagliate.

In effetti, diverse utility elettriche hanno già iniziato questo percorso puntando su efficienza e rinnovabili, un cambiamento di modello di business a portata di mano. Benché molto più complessa, qualcuno potrebbe ritenerla impossibile, la transizione dovrà essere affrontata anche dalle compagnie petrolifere e del carbone. Secondo Fathi Birol, nuovo direttore della IEA che ha sempre avuto a cuore le sorti dei fossili, sbagliano di grosso le compagnie che non includono il clima nelle loro strategie.

Del resto, il loro know-how può essere sfruttato in molti settori della transizione energetica, dall’eolico off-shore – strada peraltro già imboccata da Statoil con innovativi impianti “floating” – alla geotermia, dal solare ai biocarburanti. Nel Duemila la BP ci aveva provato, rinominandosi “Beyond Petroleum”, ma il timido tentativo è prontamente rientrato; oggi Total è attiva nel solare e altre compagnie sondano il terreno, come l’indiana Reliance Power intenzionata a passare dal carbone al solare. Complessivamente, però, l’attenzione è limitata.

I Paesi arabi ricchi di petrolio vivono una lacerante contraddizione. Ultimi ad avere inviato le loro proposte sul clima a Parigi, stanno però avviando una seria transizione verso le rinnovabili.

Ma quali potranno essere in effetti le implicazioni climatiche sugli investimenti nella produzione petrolifera? Nello scorso decennio, a fronte di alti prezzi del greggio, sono stati impegnati enormi capitali per individuare nuovi giacimenti e mettere a punto soluzioni estrattive come il fracking. L’eccesso di offerta, in un contesto di domanda debole, ha contribuito al crollo dei prezzi e a un deciso rallentamento delle esplorazioni. Ma se la produzione futura non risultasse sufficiente, le quotazioni inevitabilmente si innalzerebbero. L’abilità dei produttori sta nel riuscire ad anticipare questi scenari per evitare di bruciare investimenti miliardari o, al contrario, di farsi trovare impreparati. Questo era il passato.

Adesso si inserisce la variabile climatica, una novità per questi dinosauri, che potrebbe comportare l’innesco di un altro paradosso, questa volta “nero”. Una maggior cautela nella ricerca di nuovi giacimenti per non rischiare investimenti inutili porterebbe a un’offerta troppo bassa e a un innalzamento dei prezzi che favorirebbe la mobilità elettrica e i biocarburanti, contraendo strategicamente il mercato. D’altra parte, un investimento eccessivo nella ricerca di nuovi giacimenti rischierebbe di “congelarli” proprio per i vincoli climatici.

Dunque, l’introduzione della variabile climatica nelle scelte strategiche dei grandi gruppi prospetta un dilemma perverso. Da qui, i primi tentativi di diversificare le attività, ma anche la resistenza verso le politiche climatiche, che in alcuni casi è arrivata fino al finanziamento dei negazionisti. Un’accusa per la quale la Exxon è sotto inchiesta a New York e che potrebbe portare a una “class action” tale da fare impallidire lo scandalo Volkswagen.

Il tutto, in un contesto caratterizzato dalle campagne che incitano a disinvestire dalle fonti fossili e a bloccare le ricerche pericolose per l’ambiente. La prospettiva è quella di apparire sempre più come delle “appestate”, accostandosi nell’immaginario collettivo ai produttori di armi o ai gestori dei giochi d’azzardo. Perché, in fondo, proprio di un gioco d’azzardo stiamo parlando. Nel quale si sa chi perderà, le generazioni future, e nel quale, però, i cittadini/consumatori sono giocatori inconsapevoli. In realtà, sempre meno inconsapevoli e sempre più in grado di riappropriarsi delle scelte vitali per il loro futuro, come ci ricordano le manifestazioni nelle piazze di tutto il mondo che si sono svolte il 29 novembre.

L’articolo è stato pubblicato sul n. 5/2015 della rivista bimestrale QualEnergia con il titolo “Fossili impreparati”.

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