La strada per la carbon tax

CATEGORIE:

Aumentano le imprese che utilizzano il carbon pricing. Spesso a livelli maggiori della quotazione "ufficiale". La politica in questo caso può imparare dal mercato. Il meccansimo più efficace per dare un prezzo alla CO2 sembra però essere la carbon tax. GB Zorzoli spiega, in articolo pubblicato sulla rivista bimestrale QualEnergia, come ci si può arrivare e con quali vantaggi.

ADV
image_pdfimage_print

versione articolo pdf

Anche se quanto segue è stato scritto prima della COP21 e non può quindi prevederne gli esiti, è viceversa ragionevole ipotizzare che, a differenza di Kyoto, a Parigi uno dei temi centrali sarà il carbon pricing. Una parte significativa degli esperti è infatti convinta della superiorità di questa opzione rispetto a quella di fissare a priori tetti alle emissioni, come confermano per esempio gli articoli contenuti nella sezione a ciò dedicata nel numero di settembre 2015 di “Economics of Energy & Environmental Policy”.

Uno studio della Banca Mondiale

Una recente conferma di questa linea di tendenza ce l’offre uno studio della Banca Mondiale (State and Trends of Carbon Pricing, settembre 2015), i cui risultati sono sintetizzati in figura 1 (cliccare per ingrandire). Quaranta Stati nazionali, 20 fra città e regioni, responsabili di quasi un quarto delle emissioni globali di gas serra, hanno adottato meccanismi di carbon pricing.

Si stima che nel 2015 i ricavi complessivi di questi interventi saranno appena sotto 50 miliardi di dollari, per il 70% attribuibili a meccanismi ETS, mentre la restante parte proviene essenzialmente dall’adozione di una carbon tax, con una piccola quota derivante dalla Carbon Added Tax (uno schema fiscale simile all’IVA, applicato alle emissioni di carbonio aggiunte nella produzione e distribuzione di un determinato bene).

Primi passi

Naturalmente siamo ancora lontani da obiettivi che garantiscano una soddisfacente mitigazione del cambiamento climatico. Si tratta ancora di iniziative spesso parziali, non coordinate, che oltre tutto attribuiscono alle emissioni prezzi molto variabili.

È esemplare il caso dei due principali emettitori, Cina e Stati Uniti. In Cina sono state finora avviate esperienze pilota di ETS locali: a Pechino, Shanghai, Shenzhen, Tientsin, Chongqing e nelle province di Guangdong e Hubei.

Anche in USA, accanto al caso esemplare della California, abbiamo solo la Regional Greenhouse Gas Initiative (RGGI), che vede coinvolti nove Stati della costa orientale (Connecticut, Delaware, Maine, Maryland, Massachusetts, New Hampshire, New York, Rhode Island, Vermont), basata però sul tetto fissato alle emissioni.

Troppi divari nei prezzi attribuiti al carbonio

Tuttavia, solo cinque anni fa, le strutture pubbliche che adottavano politiche di carbon pricing erano grosso modo la metà di oggi, mentre si susseguono gli annunci di nuove iniziative, fra cui spicca quello del presidente cinese Xi Jinping, il quale, durante la recente visita negli Stati Uniti, ha reso noto il varo, nel 2017, di un sistema ETS nazionale, che riguarderà i settori chiave dell’industria: siderurgia, generazione elettrica, chimica, cartiere, metalli non ferrosi e materiali per l’edilizia.

In prospettiva hanno un peso molto più rilevante i divari nei prezzi attribuiti al carbonio. Anche in un insieme di Stati come quelli membri dell’Unione Europea che, sulla carta, dovrebbero seguire politiche energetico-climatiche abbastanza omogenee, si va dai circa 9 $/t CO2eq dell’ETS europeo, a 16 dollari come floor price dell’ETS in Francia, fino al record di 130 $/t CO2eq in Svezia.

Aziende che non aspettano

Si ritrova un panorama analogo anche nella parte dello studio della Banca Mondiale che mette in evidenza come il ricorso a meccanismi di carbon pricing stia travalicando l’ambito politico e, in misura crescente, stia diventando uno strumento comunemente adottato dalle imprese, anche in Paesi dove non esiste una legislazione in materia.

Alcune aziende incorporano il carbon pricing nei costi dei progetti di nuovi investimenti, includendolo quindi tra i fattori che influenzano il processo decisionale. In altri casi viene caricato sui centri di costo delle singole unità di business.

In altri ancora è utilizzato nelle procedure di risk management, per valutare il potenziale impatto, sulle attività dell’impresa, di future decisioni politiche a favore del carbon pricing. Oppure per identificare e prezzare i risparmi e le opportunità di ritorni economici, derivanti dall’opzione di investire in processi produttivi low-carbon.

Il “Carbon Disclosure Project”

La Banca Mondiale basa questa parte della sua analisi sui risultati dell’indagine condotta nel 2014 dal “Carbon Disclosure Project” (CDP), secondo il quale l’anno scorso il carbon pricing era già utilizzato da almeno 150 società che rappresentano diversi settori dell’economia, fra cui la produzione di beni di consumo, l’energia, la finanza, gli altri comparti manifatturieri, le utility.

Per citare alcuni nomi molto noti, Mitsubishi, BMW, Renault, Mark and Spencer, Danone, Exxon, Chevron, BP, Eni, Shell, Statoil, Basf, EdF, Walt Disney, Duke Energy.

Da 150 a 437 in un anno

Anche in questo caso, la situazione è in rapido movimento. Un pezzo sul numero di settembre 2015 del Blog OnOff di Assoelettrica “Dal trapano al cappotto: sempre più aziende calcolano il prezzo del carbonio” e due articoli, uno sul “New York Times” del 27 settembre “Microsoft Leads Movement to Offset Emissions With Internal Carbon Tax”, l’altro sul “Financial Times” del 20 settembre “Companies accelerate use of carbon pricing” concordano sull’esistenza, oggi, di 437 gruppi che contabilizzano un costo delle emissioni, fra cui, come nomi nuovi, spiccano General Motors, Glencor, Cathay Pacific, Black&Decker, Microsoft.

Non credo di esagerare, definendo straordinaria la crescita, in un solo anno, dalle 150 aziende, censite dal CDP, alle 437 che attualmente lo adottano. Siamo però in presenza di un altrettanto notevole spread nei prezzi attribuiti alle emissioni di carbonio, come mette in evidenza la figura 2, che riporta quelli delle aziende che hanno accettato di comunicare al CDP il carbon pricing praticato: si va da un minimo di 6 a 89 $/tCO2eq.

Il caso Inditex

Di particolare rilievo è il caso, messo in evidenza dal Blog OnOff, del gruppo tessile spagnolo Inditex, noto al pubblico con il brand Zara, che attribuisce contabilmente un costo di 30 $/tCO2eq, sebbene le quotazioni correnti sul mercato ETS europeo si aggirino intorno a 8 €/tCO2eq: evidentemente l’impresa ritiene troppo rischioso basare le proprie strategie su un prezzo così basso.

I Governi possono imparare dalle imprese

Sempre secondo la Banca Mondiale, i Governi che stanno analizzando quali strumenti adottare per il carbon pricing, nel prendere le loro decisioni possono trarre vantaggio dalle esperienze acquisite dalle imprese.

Fino a ieri era convinzione diffusa che, in materia di mitigazione del cambiamento climatico, spettasse alla politica fornire quei segnali che il mercato non era in grado di dare con la necessaria tempestività. Adesso scopriamo che in più di un caso il mercato potrebbe dare un segnale ai politici.

Ancora lontani da un approccio sufficientemente uniforme

Queste linee di tendenza, in larga misura spontanee, non vanno però sprecate. Pur con tutte le modulazioni necessarie per tenere conto delle differenti esigenze di sviluppo dei singoli Paesi, lo spread nei prezzi del carbonio, a livello sia politico che imprenditoriale, indica quanto siamo ancora lontani da un approccio al carbon pricing, esteso su scala mondiale e sufficientemente uniforme; condizione essenziale perché le politiche di mitigazione del cambiamento climatico siano davvero efficaci. Non meno importante è la scelta del meccanismo adottato per determinarne il valore.

Quali valori per il carbon pricing

Le emissioni di CO2 rappresentano la sfida principale, non solo perché sono responsabili per più del 70% del riscaldamento del Pianeta, con circa i due terzi provocati dalla combustione delle fonti fossili, ma per la permanenza di questo gas nell’atmosfera per almeno un centinaio d’anni, caratteristica che la differenzia da altre emissioni climalteranti.

Le emissioni di CO2 sono però il prodotto principale e inevitabile della combustione di tutte le fonti fossili, per cui gli interventi per ridurle comportano trasformazioni tecnologiche così radicali da modificare non solo in profondità i tradizionali assetti dei sistemi energetici e le regole che li governano, ma anche molti degli attuali processi industriali e le caratteristiche di svariati prodotti e servizi oggi sul mercato.

I costi, non solo economici, di questa transizione sono pertanto molto elevati e, per evitare contraccolpi insopportabili, è quindi necessario diluire gli interventi su tempi sufficientemente lunghi.

Rendere gradualmente più drastico il carbon price

Questo compromesso provoca nel frattempo un maggiore aumento della concentrazione di CO2 nell’atmosfera. Di conseguenza, per evitare di raggiungere valori che impediscano di stabilizzare a due gradi l’aumento della temperatura globale, occorre rendere gradualmente più drastico il carbon price, fino a raggiungere un valore in grado di rendere non competitiva anche l’ultima produzione che, essendo molto prossima alle condizioni richieste per uno sviluppo sostenibile, è riuscita a sopravvivere al precedente livello di prezzo.

Appropriati sono quindi i valori del carbon price che, in successione, si dimostrano capaci di garantire il percorso sopra descritto. Come abbiamo visto, a oggi l’ETS è stata la scelta dominante e, una volta adottato in Cina, lo diventerebbe ancora di più. È pertanto doveroso chiedersi se l’ETS è in grado di svolgere questo ruolo.

Il flop dell’ETS colpa delle rinnovabili?

Per difendere l’ETS adottato dall’Unione Europea, malgrado le sue prestazioni siano tutt’altro che soddisfacenti, alcuni analisti hanno sottolineato che lo sviluppo delle rinnovabili, grazie agli incentivi, ha ridotto le emissioni di CO2 e quindi la domanda di permessi, deprezzandone il valore.

Questa tesi non regge. Se l’ETS avesse svolto in modo ottimale la propria funzione – rendere più convenienti soluzioni alternative alla produzione energetica con fossili – alcune rinnovabili sarebbero cresciute in misura significativa senza incentivazioni o con supporti modesti e avrebbero egualmente abbassato il prezzo dei permessi.

Perchè l’ETS non ha funzionato

Più in generale, poiché un meccanismo ETS, basato sul mero rapporto domanda/offerta, riesce inizialmente a diminuire delle emissioni di CO2, qualunque ne sia la causa (maggiore ricorso alle FER, all’efficienza energetica, a nuovi processi produttivi), proprio per questo prima o poi finisce inevitabilmente col deprimere il valore dei permessi.

E ciò si verifica proprio quando, per ridurre ulteriormente le emissioni, il prezzo degli ETS dovrebbe addirittura crescere (malgrado ciò, risultando economicamente sopportabile, in quanto inciderà su un numero progressivamente ridotto di produzioni o di consumi).

Una storia di fallimenti e correzioni

La storia decennale dell’ETS europeo conferma questa diagnosi. Dopo essersi inizialmente collocato vicino all’obiettivo previsto di 30 €/tCO2, il prezzo è crollato, obbligando a modifiche (alterazioni) del meccanismo iniziale. Insomma, abbiamo assistito a un susseguirsi di interventi amministrativi per puntellare un meccanismo che si continua a definire “di mercato”; interventi, oltre tutto, rivelatisi inefficienti.

La recente riforma (“Market Stability Reserve”) potrebbe essere più efficace, ma alla lunga, se non ulteriormente inasprita, riporterebbe al punto di partenza.

Meglio una carbon tax

La carbon tax consente invece di fissare una penalizzazione alle emissioni climalteranti, inizialmente dosata in modo da non compromettere la situazione economico-sociale e successivamente aumentata con la gradualità e la tempestività necessarie per continuare a ridurre le emissioni in misura adeguata.

La proposta di introdurre una carbon tax, già elaborata a livello di bozza di Direttiva europea, è stata però accantonata dalla nuova Commissione, subito dopo essersi insediata a Bruxelles, a causa dell’opposizione di alcuni Stati membri.

Il floor price

Per ovviare all’inadeguatezza dell’ETS, in alcuni Paesi si è di fatto introdotta una sorta di carbon tax, imponendogli un floor price. È avvenuto nel Regno Unito, dove si è stabilito un floor price dell’ETS pari a 20 €/tCO2 per il periodo 2016-2020, che nella decade successiva dovrebbe salire fino a 30 euro, mentre in Francia da 14,50 €/tCO2 nel 2015 e 22 nel 2016 si salirà a 56 euro entro il 2020 e – target per ora indicativo – a 100 euro entro il 2030.

In entrambi i Paesi, si parte da un livello di prezzo sufficientemente alto per essere efficace in una situazione dove molte sono le realtà con emissioni climalteranti, ma non in misura tale da mettere in crisi il sistema economico-produttivo.

La preannunciata modalità di crescita nel tempo del carbon price consente alle imprese di programmare i necessari interventi, avviando una decrescita economicamente non traumatica delle emissioni. Si otterrebbero effetti analoghi anche mediante reiterate e drastiche riduzioni dei permessi di emissione, ma di nuovo si continuerebbe a chiamare ETS un meccanismo più assimilabile a una carbon tax. Un primo risultato rilevante per un’efficace politica di mitigazione del cambiamento climatico sarebbe quindi la presa d’atto che non può funzionare un meccanismo di carbon pricing basato esclusivamente su logiche di mercato.

Approccio condiviso

Il secondo, e decisivo, obiettivo è l’accettazione di politiche di carbon pricing, concordate almeno fra i Paesi che maggiormente contribuiscono alle emissioni climalteranti: per esempio i top ten, che insieme fanno il 73% del totale (mentre i cento Paesi che ne emettono meno sono responsabili solo del 3% delle emissioni): nell’ordine Cina, Stati Uniti, Unione Europea, India, Russia, Giappone, Brasile, Indonesia, Messico, Iran.

Per arrivare a questo risultato, occorre tenere presente che l’ostilità ad assumere impegni vincolanti è spesso (non sempre) dettata da motivazioni non prive di fondamento.

Il caso della Polonia

Esaminiamo per esempio il caso della Polonia, il Paese, fra quelli che hanno un certo peso nella UE, quasi certamente più ostile a misure di carbon pricing, col leader dell’attuale partito di maggioranza che ha recentemente manifestato l’intenzione di uscire dall’ETS. È probabile che si tratti della classica dichiarazione preelettorale, ma il suo nocciolo (difendere il ruolo del carbone nell’economia del Paese) riflette uno stato d’animo indubbiamente diffuso.

L’estrazione del carbone e il suo utilizzo per la generazione di elettricità sono voci rilevanti nel quadro economico polacco. La seconda consente altresì di contenere la dipendenza dal gas russo, destinata a crescere, se una parte almeno delle centrali a carbone dovessero essere sostituite da cicli combinati. Inoltre, in un Paese ancora in fase di sviluppo, la messa in discussione dell’equilibrio esistente desta inevitabilmente maggiori timori che in uno più sviluppato.

Accompagnare la proposta a garanzie

Occorre quindi accompagnare la proposta di un appropriato meccanismo di carbon pricing con garanzie di vantaggi collaterali così rilevanti da rendere possibile un atteggiamento più positivo da parte di una fascia consistente dei decisori politici e della popolazione. A tal fine, non basta evidentemente la presentazione della misura come fiscalmente neutra, in grado di ridurre altrove la pressione fiscale, che è stata finora l’unica indicazione concreta avanzata da più parti, per esempio in Italia con l’art. 15 delle legge delega per la riforma fiscale, quando, a torto o a ragione, nell’introduzione del carbon pricing una quota consistente dei decision maker e dell’opinione pubblica ravvisa il rischio di conseguenze economico-sociali negative.

Destinare il gettito alla riconversione produttiva delle attività colpite

Una proposta più convincente dovrebbe prioritariamente destinare il gettito derivante dal carbon pricing a sostegno della riconversione produttiva e occupazionale delle attività colpite verso processi e prodotti industriali low-carbon, esentando i relativi contributi da qualsiasi vincolo: aiuti di Stato, patti di stabilità, ecc.

Esauriti gli interventi di “prima priorità”, la quota residua del gettito andrà innanzi tutto destinata a una congrua riduzione generalizzata delle tasse sul lavoro dipendente e sulle imprese (seconda priorità).

Serviranno meno incentivi alle rinnovabili

Per le rinnovabili, quanto più efficace sarà il carbon pricing, di altrettanto diminuirà l’esigenza di misure di sostegno, da riservare soltanto a quelle meno mature. Il calo dei relativi oneri che, direttamente attraverso le bollette o indirettamente mediante imposizione fiscale, gravano sui cittadini, compenserà almeno in parte il maggior costo (causato dal carbon pricing) dell’energia prodotta bruciando combustibili fossili.

Un’ulteriore compensazione verrà dalla diminuita partecipazione dei fossili al mix energetico. Nella fase iniziale, saranno inevitabilmente di più i settori richiedenti interventi di prima priorità. Poiché il gettito è ancora limitato, la quota da destinare a interventi di seconda o successive priorità sarà di conseguenza molto contenuta.

Un circolo virtuoso

Con la successiva crescita del carbon price, diminuiranno i settori che necessitano di interventi di prima priorità, anche se – per la legge dei rendimenti decrescenti – ciascun intervento potrebbe risultare più oneroso, ma in compenso l’incremento del gettito consentirà di mettere comunque a disposizione risorse maggiori per le misure aventi priorità inferiore. Superato l’attrito di primo distacco, si innescherebbe insomma un circolo virtuoso, in grado di coniugare sempre più il benessere ambientale con quello economico e sociale.

L’articolo è stato pubblicato sul n.5/2015 della rivista bimestrale QualEnergia con il titolo “Il prezzo dell’emissione”

ADV
×