Il fallimento dell’ETS e una possibile soluzione

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Il meccanismo dell'Emissions Trading Scheme nell'UE ha dimostrato la sua inefficacia nella riduzione delle emissioni industriali globali. Nonostante ciò è ancora ben vista dai rappresentanti dell'industria. Anche l'adozione di una carbon tax alla frontiera ha gravi limiti. Allora quale soluzione?

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Sono anni che moltissimi di quelli che ritengono doveroso limitare le emissioni in atmosfera per mitigare i cambiamenti climatici confidano che il meccanismo suggerito dal Protocollo di Kyoto e implementato dall’Europa sia esteso anche ai territori extra UE. L’ETS prevede che ci sia un’autorità centrale che contabilizzi le emissioni industriali sul territorio. Appare dunque curiosa la speranza che un’autorità cinese certifichi le emissioni industriali cinesi. In considerazione del fatto che i dati ufficiali sulle emissioni reali del Paese asiatico sono al momento irrintracciabili, sembra improbabile che la Cina (o l’India o gli USA) accettino che i dati vengano controllati da autorità estere. Pertanto occorrerebbe fidarsi di quanto l’Autorità nazionale cinese (o indiana o statunitense) contabilizzerà.

Ma non è solo questo il punto. Il dibattito verte proprio sulla capacità di un meccanismo e di un mercato così strutturato di essere efficace per la riduzione delle emissioni. All’epoca della sua implementazione, l’ETS avrebbe dovuto soddisfare almeno 3 obiettivi:

  1. garantire, attraverso un’efficace allocazione delle risorse, la scelta tra efficientare gli opifici soggetti allo schema o acquistare sul mercato i titoli di emissione;
  2. creare le premesse per un’estensione di questo mercato ad aree geo-energetiche e produttive esterne alla UE;
  3. ridurre le emissioni globali. Il valore dei titoli, dopo un promettente inizio intorno ai 30 €/ton di CO2 emessa, sono scesi in maniera rapida e inesorabile verso un valore di 7-8 €.

Nemmeno la manovra di back loading – un correttivo di mercato per il quale la Commissione europea ha limitato l’offerta di titoli sul mercato confidando in una crescita del prezzo – ha portato i risultati sperati. Questa situazione ha molte cause e una principale conseguenza.

Tra i motivi di questo crollo dei prezzi c’è la crisi economica che ha spinto molte imprese europee a delocalizzare la produzione in territori extra UE, anche per motivi di costi energetici e ambientali, ma soprattutto l’ovvia tendenza dei consumatori europei ad acquistare beni d’importazione spesso prodotti a prezzi competitivi, delocalizzando di fatto l’accesso ai consumi.

Invece, la principale conseguenza è che a prezzi così esigui le imprese non hanno stimoli nella produzione industriale da energia clean, rinnovabile, o nell’efficientamento emissivo dei siti di produzione. È più conveniente pagare una sorta di (bassa) tassa sulle emissioni con l’acquisto di titoli, piuttosto che fare costosi investimenti nella ristrutturazione produttiva

Sulla capacità attrattiva dell’ETS, anche in questo caso si era partiti con grande entusiasmo. Australia, Canada, Cina e USA cercavano di normare un sistema analogo, nonostante il non impegno in ambito Kyoto, o creavano un mercato volontario dei titoli. Questi mercati, come quello europeo, non sono decollati e, a uno a uno, i vari soggetti si sono defilati, uscendo dal meccanismo e lasciando l’Europa sola con il suo Schema. Infine, il taglio delle emissioni previsto dall’ETS è pari a circa lo 0,4% delle emissioni globali: dunque, non decisi-vo. Soprattutto perché negli ultimi 10 anni – a eccezione del culmine della crisi economica nel 2009 – le emissioni sono cresciute globalmente del 3% annuo, quasi a dimostrazione della marginalità dell’industria europea nel contesto mondiale.

Nel libro “CO2 nei beni e competitività industriale” sostengo che un approccio territoriale per limitare le emissione non ha senso in un’economia globalizzata, in una distribuzione mondiale via posta dove la “vetrina” internet consente di acquistare qualunque bene, ovunque prodotto, al prezzo più conveniente, spesso fabbricato in maniera più economica, oltre che per il costo del lavoro, anche per i costi legati al mix energetico utilizzato per la produzione. Inoltre se, per esempio, si comprano un paio di pantaloni o una maglietta in Europa, per produrli verrà emesso un X di CO2.

Se si comprano gli stessi beni da territori extra UE, le emissioni saranno approssimativamente di 2 volte X di CO2. Dunque, l’Europa non si limita a delocalizzare la produzione e i consumi, ma con un approccio pervicace-mente territoriale sta, in ultima analisi, incentivando le emissioni globali.

L’abbaglio della carbon tax alla frontiera

Di fronte alla sostanziale inefficacia dell’ETS sia per la filiera industriale green che per la limitazione delle emissioni, le voci che propongono l’adozione di una carbon tax alla frontiera sono sempre più numerose e autorevoli. Ma rischiano di prendere un’epocale abbaglio.

A oggi, il 97% del commercio mondiale di beni e servizi – e 159 Paesi – sono sottoposti alle regole della World Trade Organization. La normativa, mutuata dal trattato istitutivo GATT, prevede di abolire o comunque di ridurre le barriere tariffarie al commercio internazionale. Il principio base, fondamentale (Art. 1, comma 1°), sul quale è strutturato il GATT/WTO è quello della “nazione più favorita”, most favored nation. In altri termini, le condizioni tariffarie, doganali, di tasse in generale che vengono riconosciute per un prodotto da un Paese contraente a – per esempio – un suo partner economico storico, sono immediatamente e incondizionatamente applicate a tutte le altre nazioni contraenti e partecipanti al GATT.

Dunque, il divieto di fatto di imporre tasse generiche sull’import a Paesi grandi emettitori che siano aderenti al GATT/WTO. Una proposta di boarder tax adjustiment fu avanzata dalla Francia nel 2009 (prima della COP 15 di Copenaghen), con la finalità di perequare le emissioni dei prodotti provenienti da Paesi terzi. Va detto che questa è stata la proposta più concreta e convincente fra le varie di modifica dello schema ETS. Si trattava del Meccanismo d’Inclusione del Carbonio (MIC), cioè della possibilità di introdurre un “appropriate adjustment measures” contro i Paesi che non adottavano misure atte a ridurre le emissioni.

Il MIC era stato strutturato in maniera tale che se i prodotti importati superavano i parametri di riferimenti europei, l’importatore avrebbe (comprato e) restituito quote pari alla differenza con i benchmark di settore; oppure l’importatore forniva la prova che i beni importati erano stati prodotti con emissioni inferiori della media europea e avrebbe restituito solo la differenza tra le proprie emissioni e i benchmark europei. Dunque, imporre agli importatori di addossarsi il costo, in termini di emissioni, come se i beni importati fossero stati prodotti in Europa.

Occorre sottolineare che i francesi, argutamente, non potendo imporre una tassazione diversa al bene cinese o indiano rispetto all’equivalente bene europeo, assumevano fittiziamente che le emissioni medie di Cina e India erano uguali alle emissione medie europee. Per chiunque s’interessa della materia, questa equivalenza non può non strappare un sorriso.

Inoltre il meccanismo, pur interessante, paga altre pesanti incongruenze:

  • il carico è sull’importatore che non è in linea con il principio “chi inquina paga” poiché l’importatore non è un emettitore (almeno in relazione alla produzione del bene importato);
  • in più, il produttore estero non avrebbe nessun incentivo a ridurre le sue emissioni in quanto non direttamente gravato dalla tassa sull’import alla frontiera; anzi, probabilmente il produttore extra-UE si sarebbe spinto nella direzione contraria, avrebbe cioè utilizzato fonti energetiche più economiche e, dunque, più inquinanti per mantenere competitivo il prezzo finale del suo prodotto e compensare la piccola tassazione aggiuntiva.

L’Europa avrebbe fornito una formidabile “foglia di fico” ai Paesi inquinatori: a chi avesse chiesto a questi Paesi un maggior impegno alla limitazione delle emissioni, avrebbero opposto che pagavano già le quote di emissione con l’importatore.

Di fatto una carbon tax alla frontiera si trasformerebbe in un vantaggio solo economico basato sull’obbligo di acquisto di quote e senza nessuna ricaduta positiva sulla riduzione delle emissioni. Inoltre, la stessa praticabilità giuridica appare quantomeno dall’incerto risultato. In questa fase di grandi confronti sulle tematiche climatiche, tutto serve all’Europa tranne che una soluzione compromissoria che non valorizzi i grandi sforzi fatti per la produzione energetica rinnovabile e gli impegni di efficientamento industriale e che, di fatto, non sia di stimolo forte e reale, lucido e determinato per politiche di riduzione delle emissioni globali.

CO2 nei beni

Dopo 7 anni di crisi economica, l’Europa sembra rassegnata alla deindustrializzazione per trasformarsi in un continente di servizi, in maniera analoga a quanto fatto negli anni ’90 dalla Gran Bretagna dell’immediato post thatcherismo. Questa sconsolata accetta-zione è particolarmente evidente nelle politiche energetiche e climatiche, dove persino i rappresentanti dell’industria ormai difendono passivamente l’ETS, in parte con la preoccupazione che una revisione del sistema possa portare a inasprimenti sugli obblighi ambientali, in parte con la (neanche tanto) segreta consapevolezza che produrre fuori dalla UE è conveniente in tanti modi.

La bilancia commerciale europea è drammaticamente in perdita nei confronti di molti Paesi e particolarmente di quei “paradisi emissivi” dai quali importiamo una buona parte dei beni di cui necessitiamo. L’ETS funziona perché stiamo delocalizzando la produzione dei nostri consumi, una tassa alla frontiera sulla CO2 non limiterebbe le emissioni ma rimpinguerebbe solo i costituendi fondi per i cambiamenti climatici invocati da Cina e India. In un modo o nell’altro, i consumatori europei pagheranno lo sforzo mondiale per la limitazione delle emissioni senza presumibilmente riceverne i benefici.

Sempre nel libro CO2 nei beni e competitività industriale europea sostengo che l’unica strada per non svilire ulteriormente l’industria continentale, anzi facendole recuperare competitività sul versante dei costi energetici – che sono in Europa i più alti al mondo –, è quella di imporre un prezzo amministrato alla CO2 “contenuta” nei beni, sia che questi vengano prodotti localmente o importati da territori extra UE. E perequare questo costo sull’IVA applicata: una sorta di Imposta sulle Emissioni Aggiunte. Data la migliore efficienza dell’industria europea, temprata da oltre un decennio di politiche ambientali, l’IVA sui prodotti europei sarebbe presumibilmente più bassa dell’attuale imposizione. A questo farebbe da contraltare un’imposizione superiore per i beni fabbricati con bassi standard ambientali e alte emissioni. Quindi, una tendenziale neutralità fiscale. Questa non è una tassa alla frontiera, ma una valorizzazione degli impegni europei per una minore intensità emissiva nell’ottica di un prezzo certo dell’anidride carbonica. Un costo amministrato non risentirebbe delle fluttuazioni del mercato del carbonio e le imprese potrebbero fare piani industriali sull’efficientamento sicure di un orizzonte di costi stabile nel tempo.

Quest’impostazione non violerebbe le regole della WTO perché, a norma dell’Art. 1 del GATT, sarebbe una tassa equivalente su prodotti analoghi e non integrerebbe una discriminazione.

Perché l’equivalenza sia attualizzata occorre che le imprese di Paesi terzi possano, su base volontaria, dimostrare che i loro processi produttivi siano compliance con i parametri europei. Sebbene possa apparire in qualche modo complesso, in realtà – come ipotizzo nel libro – creare un sistema con un ente accreditatore europeo e una serie di enti verificatori privati che riconoscano le emissioni industriali dei vari opifici non solo non è complesso, ma non è neanche costoso, perché sarebbero le imprese extra UE che, interessate dalla possibilità di un abbassamento dell’IVA sui prodotti da loro esportati in Europa, pagherebbero la verifica.

In questo modo si avrebbe un forte stimolo per le imprese extra-UE a limitare le proprie emissioni, ad approvvigionarsi di tecnologia funzionale (in larga parte prodotta proprio dall’Europa) e a consentire la tracciabilità della CO2. Limitare le emissioni, sviluppare la filiera green, rilanciare l’asfittica produzione industriale europea sfruttando il più attrattivo mercato del mondo: l’Europa. Questa non è utopia ma quotidianità.

L’Europa già ora non importa giocattoli fabbricati con materiali tossici, né fa circolare veicoli che non rispettino la normativa “EURO”, qualunque sia la casa automobilistica, coreana o giapponese, che li ha fabbricati. E i produttori si adeguano al mercato UE. E se proprio saremo relegati al ruolo di consumatori di beni prodotti da altre parti del mondo, cerchiamo almeno di acquistare prodotti che rispecchino i valori che noi stessi europei ci siamo imposti, che siano fabbricati senza lo sfruttamento minorile, che non contengano materiale tossico e che siano, fuori da ogni dubbio, sostenibili ambientalmente. Se saremo relegati al ruolo di cliente, cerchiamo di essere almeno consapevoli che il cliente, in uno libero mercato, ha sempre ragione.

L’articolo è stato pubblicato sul n.4/2015 della rivista bimestrale QualEnergia, con il titolo “ETS: tattica senza strategia”

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