Un buon clima per la COP21 di Parigi?

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UE, Usa e soprattutto Cina, come arrivano all’appuntamento di Parigi? Sicuramente meglio rispetto a Copenhagen 2009, anche se gli impegni non saranno sufficientemente ambiziosi. Ci saranno però altri futuri passaggi che renderanno le azioni più incisive. L'editoriale di Gianni Silvestrini.

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Sembra quasi che il nostro Pianeta avverta l’importanza di alcuni momenti critici e li scelga per lanciare forti segnali di ammonimento. Così è stato nel 1997, l’anno del Protocollo di Kyoto, quando si è registrato il valore più alto di temperatura della storia delle misurazioni (a partire dal 1880).

Quest’anno l’appuntamento sul clima è ancora più importante, con la maggior parte delle nazioni pronte a impegnarsi nel contenimento delle emissioni. E ancora una volta ci si appresta a battere decisamente tutti i precedenti record di temperatura. I primi nove mesi del 2015 hanno infatti fatto registrare 0,85 °C in più rispetto alla media del secolo scorso. E sempre quest’anno, la concentrazione di CO2 ha superato per molti mesi la soglia di 400 ppm, un valore che non si registrava da almeno 800mila anni.

Ma come si arriva all’appuntamento di Parigi? Molto meglio rispetto a Copenhagen nel 2009. Il successo è assicurato, anche se gli impegni non saranno sufficientemente ambiziosi. Ci saranno altri futuri passaggi che renderanno le azioni più incisive.

La decisione dell’Europa di ridurre entro il 2030 del 40% le emissioni climalteranti rispetto al 1990 è la più avanzata. Rafforzata dalla posizione assunta il 18 settembre dai ministri dell’Ambiente, che ribadisce l’impegno europeo a ridurre dell’80-95% le emissioni al 2050 e la necessità di ridurre le emissioni mondiali entro il 2020 per arrivare poi a un loro dimezzamento al 2050.

L’impegno degli Usa, con un taglio del 26-28% delle emissioni al 2025 rispetto al 2005, rappresenta un’accelerazione rispetto al passato, anche se è decisamente meno incisivo rispetto a quello europeo (nel 2005 le emissioni statunitensi erano infatti del 14% più elevate rispetto al 1990). Va comunque detto che Obama, pur con una maggioranza repubblicana al Congresso e al Senato che non si registrava da 85 anni, si è mosso con grande abilità utilizzando i poteri dell’Epa (l’equivalente del nostro Ministero dell’Ambiente) per porre vincoli alle emissioni delle centrali elettriche e ai consumi delle automobili.

Ma, soprattutto, gli Stati Uniti hanno giocato un ruolo molto più incisivo dell’Europa sulla scena internazionale, raggiungendo l’accordo con la Cina, stimolando l’India, dialogando con molti altri Paesi. E una forte spinta all’adozione di adeguate politiche contro il riscaldamento globale viene da Papa Francesco con la sottolineatura dello stretto legame tra la lotta ai cambiamenti climatici e quella alla diseguaglianza sociale.

E veniamo alla Cina, le cui scelte sono decisive, visto che le sue emissioni climalteranti superano quelle di Europa e Usa messe insieme. Il Paese asiatico sembra davvero fare sul serio, come dimostra l’ultimo annuncio dell’avvio nel 2017 di un sistema nazionale di compravendita dei diritti di emissione di CO2 che dovrebbe essere applicato, analogamente al sistema ETS europeo, alle centrali elettriche e alle industrie energivore come quelle dell’acciaio, del cemento e della chimica. Una mossa che ha spiazzato i repubblicani americani che si erano opposti durante il primo mandato di Obama all’introduzione di un simile strumento negli Usa proprio con la motivazione che avrebbe avvantaggiato la Cina. Donald Trump, che attualmente guida la corsa dei candidati repubblicani alla presidenza, arrivò a dire: «Il tema del riscaldamento globale è stato creato dai cinesi per rendere l’industria americana non competitiva».

In realtà, queste misure serviranno a contenere le emissioni e faciliteranno la profonda trasformazione in atto dell’economia cinese che si riflette in un calo del rapporto tra emissioni e PIL in atto da diversi anni, destinato a continuare. Questo rallentamento è legato in buona parte alla riduzione delle attività industriali e delle costruzioni a favore di uno sviluppo dei servizi che ormai rappresentano la quota maggioritaria dell’economia (48,2% del Pil). Si tratta di una dinamica favorita dal Governo visto che il terziario utilizza un numero di addetti superiore del 30%, a parità di valore aggiunto, e che consente di ridurre fortemente gli impatti ambientali.

In futuro la fabbrica del mondo guarderà sempre più al proprio interno, per soddisfare una domanda che cresce con l’urbanizzazione. Si tratta del passaggio verso la “nuova normalità”, secondo l’analisi fatta da Nicolas Stern in un recente rapporto della London School of Economics, che dovrebbe portare a una crescita più equilibrata, con più innovazione, meno diseguaglianze sociali e una maggiore sostenibilità ambientale. Vedremo se e quanto le linee ispiratrici del 13° Piano quinquennale (2016-2020), che sta per essere reso pubblico, sanciranno questo cambiamento. Naturalmente il ribilanciamento in atto non è un processo indolore. Comporta forti resistenze interne e, se non verrà gestito con attenzione, potrà impattare negativamente sulle dinamiche economiche.

Ma veniamo alle conseguenze ambientali e climatiche di questa trasformazione. Il primo dato, clamoroso, viene dal consumo di carbone che si è ridotto nel 2014 a fronte di un aumento del Pil del 7%. Un fatto sorprendente considerando che l’aumento annuo dei consumi aveva raggiunto il 9-10% nel primo decennio di questo secolo. Che non sia stata un’anomalia, ma il risultato di un cambiamento strutturale, è dimostrato dall’ulteriore calo nella prima parte del 2015 che ha portato a una riduzione del 6% dell’impiego del carbone nelle centrali elettriche in dodici mesi.

Questo arresto della crescita è legato a forti motivazioni ambientali, oltre al già citato spostamento strutturale verso i servizi. L’inquinamento atmosferico comporta infatti 1,6 milioni di morti l’anno e danni ingentissimi all’economia. Una situazione non più tollerabile che ha indotto il Governo a chiudere una serie di centrali, in particolare nei pressi dei centri urbani, e a spingere sulle rinnovabili con investimenti che lo scorso anno hanno raggiunto la cifra di 83 miliardi di dollari, un terzo del totale mondiale.

Anche il comparto industriale, sul quale si erano riversati enormi investimenti che hanno portato a una sovraccapacità, sta rallentando. La Cina nel 2013 ha prodotto la metà dell’acciaio e il 60% del cemento mondiale. Entrambi questi settori, che sono responsabili del 60% delle emissioni climalteranti industriali cinesi, nel 2015 hanno visto un calo della produzione. Le implicazioni di questi cambiamenti strutturali sulla diplomazia del clima sono enormi. Com’è noto, la Cina si è impegnata a raggiungere un picco delle emissioni entro il 2030, ma è possibile che la CO2 inizi a calare ben prima.

Secondo il rapporto della London School of Economics, le emissioni climalteranti potrebbero raggiungere il loro massimo tra il 2020 e il 2025 su valori pari a 12,5-14 miliardi di tonnellate, un valore di poco superiore agli attuali livelli di 12,5 miliardi di tonnellate CO2eq. Se questa valutazione fosse corretta, saremmo ancora in tempo a evitare che l’incremento della temperature del Pianeta oltrepassi la soglia critica dei 2 °C.

Articolo tratto dall’editoriale della rivista bimestrale QualEnergia, n.4/2015, dal titolo “Un buon clima, anche in auto” (pdf)

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