Quelle lobby a braccetto con la politica contro il taglio delle emissioni

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QualEnergia.it intervista Vincenzo Ferrara, fisico-climatologo dell’Enea oggi in pensione, sulle prospettive e le attese per la Cop di Parigi. L'esperto, stigmatizzando le incongruenze e le ipocrisie della politica mondiale, punta il dito sulle multinazionali, sui poteri economici, soprattutto del mondo delle fonti fossili. "Le soluzioni ci sono, ma finora si è fatto troppo poco e sempre con grave ritardo".

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La Cop21 di Parigi  è ormai a soli tre mesi dall’inaugurazione, e si susseguono incontri preparatori, ricerche scientifiche e dichiarazioni di politici e autorità religiose sul tema del cambiamento climatico. Ma nel corso di questi negoziati si riuscirà a mettere sotto controllo il pericoloso riscaldamento del pianeta, o rischia solo di essere l’ennesima delusione o dilazione dal prendere misure decisive?

Lo abbiamo chiesto a Vincenzo Ferrara, fisico-climatologo dell’Enea e memoria storica della lotta al cambiamento climatico nel nostro Paese, avendo presenziato, a nome dell’Italia, a tutte le riunioni internazionali sul tema fino al 2013, quando è andato in pensione.

Dottor Ferrara, una ricerca diretta dall’economista Gernot Wagner ha avanzato su Science alcune idee su come la politica potrebbe favorire una veloce riduzione delle emissioni. In pratica si invita a creare un ambiente favorevole alla diffusione delle rinnovabili rendendo smart le reti, tassando il carbonio fossile e incentivando gli accumuli. Il tutto non solo per ridurre direttamente le emissioni, ma anche per creare una forte lobby industriale “verde”, che bilanci almeno in parte l’enorme influenza di quella dei fossili, che rappresenta l’ostacolo maggiore a un vero cambiamento. È l’approccio giusto?

In parte sì, perché in effetti il problema dell’azione di contrasto messa in atto dalla potente lobby dei combustibili fossili è uno dei più gravi. Quando cominciammo, nel 1990, il percorso che portò prima alla dichiarazione di Rio del 1992 e poi al protocollo di Kyoto, eravamo entusiasti e ingenui, convinti che le sole evidenze scientifiche avrebbero spinto il mondo ad agire rapidamente. Ma ben presto ci rendemmo conto che contro di noi si era messa in moto una macchina enorme che arrivava a produrre lavori scientifici falsi, assoldare nostri colleghi perché ci smentissero, indirizzando i media perché instillassero un continuo dubbio nel pubblico e nei politici riguardo alle nostre conclusioni. Io stesso sono stato attaccato per anni dai giornali di centro-destra, con interventi ai limiti della diffamazione, solo perché affermavo ciò che oggi hanno riconosciuto tutti. E così si sono persi 20 anni, e ci ritroviamo più o meno al punto di partenza.

Non proprio, recentemente gli Usa hanno annunciato una riduzione dei loro livelli di emissioni di CO2, che i giornali hanno indicato come una svolta.

Veramente è una presa in giro, che solo una stampa disinformata può scambiare per una rivoluzione. La riduzione annunciata da Obama prende come base il 2005, anno di massime emissioni, mentre la convenzione Onu sui cambiamenti climatici, ratificata anche dagli Usa, indica come anno di riferimento il 1990, quando le emissioni erano ben più basse. Inoltre la riduzione riguarda solo il settore elettrico. Il risultato è che gli Stati Uniti al 2030 aumenteranno del 4% le loro emissioni rispetto al 1990, e altri paesi, visto l’esempio, hanno già annunciato simili “finte riduzioni”.

Eppure Obama aveva suscitato tante speranze anche in campo climatico.

Certo, alla Conferenza di Copenhagen del 2009 eravamo convinti che con lui tutto sarebbe cambiato rispetto all’era Bush. Erano già pronti i trattati della “Road Map” di Bali, che avrebbe fatto partire seriamente la riduzione delle emissioni. E invece a farlo fallire fu proprio il comportamento, al di fuori dei negoziati ufficiali, degli Usa con la Cina. Adesso a Parigi si va con la nuova “Piattaforma di Durban”. Speriamo che la storia non si ripeta e Obama sia più conseguente alle sue promesse. La verità è che finora molti leader politici sono finora rimasti alla finestra ad aspettare che facessero qualcosa gli altri Paesi, magari anche per approfittarsene per guadagnare competitività. L’unica area del mondo ad aver agito seriamente sul clima è l’Unione Europea che rispetterà il -20% sulle emissioni al 2020 e ha già annunciato un -40% al 2030, rispetto al giusto riferimento del 1990. Sugli altri caliamo un velo pietoso.

Come si spiega tanta indifferenza? In fondo anche i politici hanno figli e dovrebbero pensare al loro futuro.

I politici che partecipano a queste conferenze sono professionisti che lavorano a un solo scopo: l’interesse della nazione che rappresentano, se non addirittura meno confessabili interessi di lobby economiche. A loro del futuro e del bene dell’umanità non importa molto. E a peggiorare le cose, c’è una drammatica disparità globale di potere: le nazioni più ricche e potenti, le più responsabili del cambiamento climatico, sono anche quelle che risentiranno meno delle sue conseguenze; anzi in alcuni casi potrebbero pure guadagnarci. A rimetterci di più sono invece i paesi più poveri e deboli delle fasce tropicali o subtropicali, Mediterraneo compreso, che pure hanno contribuito meno al problema. In quest’ottica lo stallo non è poi così sorprendente.

Forse anche le incertezze della scienza climatica non hanno aiutato a decidere.

Guardi, il problema era già chiaro nel 1990: dagli anni ‘60 l’umanità ha superato gli 11-12 miliardi di tonnellate annue di CO2 che foreste, suolo e oceani sono in grado di assorbire, mentre il fatto che la CO2 sia un potente gas serra è noto da 150 anni. Quindi era ovvio che, in assenza di limitazione delle emissioni, la CO2 si sarebbe accumulata in aria e le temperature terrestri sarebbero via via cresciute, come poi confermato dalle osservazioni. Era insomma già tutto noto fin dall’inizio della discussione. Nei decenni successivi si sono solo chiariti i dettagli, ma, incredibilmente, la politica ha lasciato che le emissioni salissero fino ai 35 miliardi di tonnellate annue attuali: stiamo portando avanti un rischioso esperimento climatico, con noi dentro alla provetta. Se si sono bloccate le misure necessarie per evitarlo non è certo stato perché c’era un “dibattito” fra gli scienziati.

Ma almeno, alla fine, si è riusciti a fissare un limite preciso: i 2 °C massimi di aumento delle temperatura media globale, corrispondenti a 450 ppm di CO2 in aria.

Già, ma quello non è un limite fissato dai climatologi. Si basa sulle stime dei costi del limitare le emissioni da combustibili fossili fatti dall’economista inglese Nicholas Stern, secondo le quali fermarci a 450 ppm è il limite massimo a cui ci si può spingere, senza bloccare lo sviluppo economico mondiale. Da un punto di vista climatologico non sappiamo con certezza se sia un limite ragionevole o meno: le probabilità che ci metta comunque in pericolo sono di circa il 50%. E nonostante i 450 ppm siano solo un rischioso compromesso, al momento le misure annunciate non arrivano al 60% di quanto necessario per non superare quel limite.

Ma allora, cosa fare per ridurre gli effetti dei cambiamenti climatici?

Sarebbe servita una cosa molto semplice: che fin dagli anni ’90 si fosse riconosciuto che il modello di sviluppo basato su petrolio, gas e carbone non poteva continuare, e che lo avremmo dovuto superare entro una cinquantina di anni. Un obbiettivo difficile, certo, ma fattibile tecnologicamente ed economicamente, con una azione concertata globalmente. Essendo però l’industria dei fossili la lobby economica più potente mai esistita, nazioni e multinazionali si sono messe di traverso, riuscendo a non far passare quel principio. Il risultato di questa ambiguità lo vediamo oggi: grandi allarmi sul cambiamento climatico, che vanno però in parallelo ad annunci entusiasti, magari degli stessi politici, di nuove scoperte petrolifere, di nuove trivellazioni nell’Artico o sull’uso di nuove tecniche di estrazione di idrocarburi, tipo il fracking. Cercando poi di risolvere questa contraddizione con l’adozione di mezze misure, che non cambiamo nulla.

Per esempio?

Per esempio i sistemi di trading delle quote di carbonio fossile, che l’industria ama tanto, ma che essendo stati implementati in sole poche aree, su soli pochi settori, e con regolamenti così contorti da permettere truffe, scappatoie e generose elargizioni di quote gratuite, non sono serviti praticamente a niente. Secondo i piani, oggi una tonnellata di CO2 nel sistema di scambio europeo doveva costare sui 100 euro, siamo invece solo ad 8 euro.

E quali misure, invece, potrebbero funzionare?

La prima cosa, in parte già annunciata, sarebbe quella di eliminare tutti i sussidi ai combustibili fossili nel mondo, 500 miliardi di dollari annui, circa cinque volte di più di quanto incassano le rinnovabili. Efficace e semplice sarebbe anche tassare i combustibili in proporzione al loro contenuto in carbonio fossile, la carbon tax, così da favorire quelli che ne contengono poco o nulla. Ma, certo, anche queste misure andrebbero prese globalmente, altrimenti svantaggerebbe chi le applica rispetto agli altri, e andrebbero affiancate da meccanismi di compensazione fiscale, visto che finirebbero per pesare maggiormente sui redditi più bassi. Per queste ragioni noi in Europa stavamo preparando una misura molto più raffinata ed equa: la tassazione dei prodotti in base ai combustibili fossili che sono stati usati per realizzarli, o carbon footprint. Una misura simile potrebbe benissimo essere presa da una sola parte di mondo, in quanto, agendo anche sui prodotti importati, non penalizzerebbe le produzioni locali e anzi ostacolerebbe le delocalizzazioni di industrie, e relative emissioni di CO2, in quanto anche i trasporti pesano sul carbon footprint. Questa misura premierebbe, insomma, i produttori virtuosi, quelli che riescono a limitare l’uso dei combustibili fossili in tutto il processo, usando efficienza e rinnovabili, e stimolerebbe anche l’innovazione tecnologica.

Ma sarebbe stata forse molto complicata da attuare.

Non particolarmente una volta stabiliti i criteri di calcolo e applicazione. Si potrebbe partire con una indicazione in etichetta della CO2 fossile contenuta in ogni prodotto, e poi, nel tempo, imporre una tassazione crescente legata a quella quantità, così da stimolare l’abbandono dei combustibili fossili in modo graduale, senza creare traumi. Per noi era l’uovo di Colombo, ma la politica probabilmente, su input dell’industria, ci ha fatto sapere di lasciar perdere.

Potrebbe però essere riproposta adesso a Parigi. Ha fiducia che dalla COP21 uscirà qualche soluzione che eviti il disastro climatico?

Francamente no, mi pare che si continui con gli annunci di mezze misure prese in ordine sparso: troppo poco e troppo tardi. Sto cominciando a pensare che forse il vero obbiettivo delle lobby dei combustibili fossili, pur di non vedere intaccato il loro business, sia quello di far sì che la situazione degeneri a tal punto da richiedere, per salvare il clima, l’uso di complesse, costosissime e rischiose tecnologie di geoengineering, come riempire i cieli di particelle di solfati che schermino il sole. Sarà forse questo il campo di attività futuro di quei giganti multinazionali, quando estrarre idrocarburi non sarà più conveniente: come un serial killer che gestisce un’attività di ripulitura delle scene del crimine. Ma forse la storia che ho attraversato mi ha amareggiato e reso troppo pessimista.

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