Piano Obama sul clima, perché non è il caso di entusiasmarsi troppo

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Il Clean Power Plan è un passo in avanti storico per la politica energetica Usa e per la lotta al global warming, ma non è certo la rivoluzione energetica che vorrebbero gli ambientalisti. A guardarle bene le nuove regole per le centrali hanno diversi limiti e sono contraddette dalla spinta allo sfruttamento di carbone e petrolio nazionali.

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“Il Clean Power Plan è un importante passo avanti negli sforzi che stanno facendo gli Stati Uniti per affrontare i cambiamenti climatici, ma chiunque abbia seguito i recenti sviluppi scientifici sa che è profondamente inadeguato da solo. Se il governo Obama vuole davvero lasciare un’eredità positiva su questo fronte e un pianeta in cui i nostri figli possano vivere, deve fermare le trivellazioni, l’estrazione dei combustibili fossili di proprietà pubblica e bloccare i pericolosi piani di trivellazioni petrolifere della Shell nell’Artico”. Ad affermarlo è Annie Leonard, direttrice esecutiva di Greenpeace Stati Uniti: se in generale il Clean Power Plan annunciato ieri dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama è stato accolto con soddisfazione dal mondo ambientalista (vedi anche editoriale di oggi del nostro direttore scientifico), non mancano voci che tentano di smorzare l’entusiasmo.

Ad esempio l’analisi che ne fa Kyle Ash, Senior Legislative Representative di Greenpeace, in un articolo pubblicato sull’Huffington Post americano è particolarmente dura. Le regole EPA sulle centrali elettriche, che arrivano 8 anni dopo una sentenza della Corte Suprema che ha dato all’agenzia il compito di mettere dei limiti alla CO2, secondo Ash sono “un passo avanti importante”, ma “non vanno abbastanza lontano”, anzi sono “tristemente inadeguate e poco ambiziose”, specie se viste assieme “al disastroso desiderio dell’amministrazione Obama di aumentare le estrazioni delle riserve federali di carbone, gas e petrolio”.

Secondo l’esperto ambientalista c’è molto più marketing politico che sostanza nel nuovo piano. Lo dimostra bene il giochetto fatto con l’anno di riferimento scelto per misurare i tagli. Come sappiamo è stato annunciato che il Clean Power Plan entro il 2030 taglierà le emissioni del settore elettrico del 32% rispetto ai livelli del 2005. Il 2005 però è l’anno in cui le emissioni Usa hanno raggiunto il loro massimo storico: da quell’anno al 2013 sono scese di circa il 13%. Per cui il taglio del 32% al 2030 con baseline 2005 in realtà si traduce in una riduzione del 20% se si conta dal 2013. Secondo gli scenari delineati nel report Energy [R]evolution di Greenpeace si potrebbe dare una sforbiciata 3 volte maggiore ai gas serra del settore elettrico Usa.

Altra critica al Clean Power Plan è quella che nella sua versione finale l’entrata in vigore viene posticipata dal 2020 al 2022: in questo modo, fa notare Ash, le regole EPA non potranno essere usate per raggiungere gli obiettivi 2020 e faranno molto poco per quelli al 2025, anno entro il quale gli Usa hanno dichiarato di voler ridurre le emissioni di CO2 complessive del 26-28% (sempre su baseline 2005).

Infine l’esperto di Greenpeace Usa ha dei dubbi anche sulla capacità reale delle nuove regole di ridurre le emissioni: punto debole sarebbe il fatto che il limite ai gas serra per le centrali esistenti viene calcolato sull’intero parco elettrico di ogni Stato e non sui singoli impianti. Il fatto che sarà possibile compensare le emissioni con un meccanismo di mercato interstatale secondo Ash diminuirebbe l’efficacia dei limiti EPA che, per altro, se sono severi con le centrali a carbone, per quelle a gas “si limitano a riconoscere livelli ‘business as usual’”. Insomma, anche se il Clean Power Plan resta un passo in avanti storico non è certo la rivoluzione energetica che vorrebbero gli ambientalisti.

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