Segnali di fuga dal carbone

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Anche se gli investimenti globali del sistema bancario nel carbone rimangono stabili, alcuni segnali sembrano delineare una fuga da questa inquinante fonte fossile. Anche le numerose campagne "no coal" in atto nel mondo potrebbero rafforzare questa tendenza. Un articolo di Giuseppe Onufrio di Greenpeace pubblicato sull'ultimo numero della rivista bimestrale QualEnergia.

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Nel rapporto The end of Coal, elaborato per conto di Sierra Club, Rainforest Action Network e BanckTrack (2015), si delineano le tendenze in atto in un settore energetico chiave per la lotta ai cambiamenti climatici. Il sistema bancario globale nel 2014 ha investito 69,6 miliardi di dollari nell’estrazione del carbone (un dato in crescita rispetto ai 55,3 dell’anno prima), mentre gli investimenti nelle più grandi aziende elettriche che utilizzano il carbone erano in discesa a 74,4 miliardi di dollari rispetto agli 89,6 dell’anno precedente.

Se dunque, nel complesso, gli investimenti globali del sistema bancario nelle attività legate al carbone rimangono stabili, una serie di fatti nuovi è emersa nel corso del 2014 indicando una tendenza che lascia intravedere un declino degli investimenti in questa fonte. Non è chiaro, conclude il rapporto, se questo declino sia abbastanza rapido da avere un sufficiente impatto nella riduzione delle emissioni. La tendenza registrata dal rapporto è continuata anche nel 2015, come vedremo di seguito.

Disinvestire dal carbone

Negli ultimi anni una campagna internazionale per chiedere di disinvestire dal carbone e dalle fonti fossili si è sviluppata sotto l’impulso di associazioni come 350.org e testate come The Guardian.

Il Pension Fund Global norvegese – il più grande fondo pensione del mondo con circa 900 miliardi di dollari investiti – aveva introdotto un anno fa criteri di investimento per escludere alcune attività legate al carbone, escludendo oltre una cinquantina di aziende (vedi link). In queste settimane un voto trasversale del Parlamento norvegese ha approvato una raccomandazione di disinvestire da tutte le aziende che ricavano oltre il 30% da attività legate al carbone. Questa era la principale richiesta della campagna, non l’unica, ma che da sola porterà a disinvestire una cifra di circa 7,7 miliardi di euro da 122 aziende che operano nel settore carbone (Fonte: Urgewald, Greenpeace Norvegia, Future in Our Hands).

In Italia, l’unica azienda che ha attività collegate al carbone e su cui il fondo norvegese ha investito oltre 5 miliardi di corone è Enel. «Se tre anni fa ci avessero detto che il più grande fondo pensioni avrebbe disinvestito dal carbone, ci saremmo messi a ridere», ha dichiarato Bill McKibben, leader ambientalista e co-fondatore di 350.org, l’organizzazione che ha lanciato la campagna.

Assieme alla recente decisione della compagnia assicurativa AXA di disinvestire 500 milioni di dollari dal carbone e di investire 3 miliardi di dollari in rinnovabili, e altre decisioni dello stesso segno da parte dell’Università di Oxford e della Chiesa d’Inghilterra, le brutte notizie per il settore del carbone, lungi dall’essere finite, sono solo all’inizio.

Infatti, segnali come questo, avvenuto peraltro a seguito di una campagna che va montando in diversi Paesi e che non ha fatto che accelerare una linea già in atto, possono effettivamente tradursi in un effetto domino e cioè una progressiva fuga “finanziaria” dal carbone.

Certo, che a muoversi sia il fondo norvegese che raccoglie comunque proventi petroliferi, può sembrare una contraddizione, ma a ben vedere non lo è. L’effetto netto è quello di spostare gli investimenti in fonti rinnovabili o in settori green: dalle liste negative (esclusioni dagli investimenti) il passaggio a quelle positive (priorità d’investimento) è possibile ed è già in atto.

Nel suo rapporto di sostenibilità 2013, la Banca olandese ING (ING Group Sustainability Report, 2013) riporta gli incontri con una coalizione di associazioni sul tema di investimenti legati al carbone e la decisione di disinvestire progressivamente dal carbone per investire in rinnovabili (e in particolare si riportano progetti finanziati in Germania, Italia e Scozia).

Un’evoluzione del “portafoglio” energetico per il settore delle aziende elettriche e delle rinnovabili della Banca mostra come dal 2008 al 2013 gli investimenti nel carbone siano scesi da quasi il 20 al 13%, mentre le rinnovabili nello stesso periodo passano da circa il 20 al 39%, e il gas mostra una flessione da quasi il 60 al 48%. Il Fondo dei fratelli Rockfeller, eredi della dinastia petrolifera proprietaria della Exxon, che amministra circa 860 milioni di dollari, annunciava nel settembre 2014 di voler disinvestire da ogni attività relativa ai combustibili fossili che rappresentavano circa il 7% del proprio portafoglio.

Per quanto i fondi disinvestiti siano limitati, l’annuncio ha avuto una grande eco e ha dato una grande visibilità alla campagna internazionale. La Chiesa d’Inghilterra, che ha fondi d’investimento per 9 miliardi di sterline, ha annunciato lo scorso aprile che disinvestirà da aziende i cui proventi dovuti all’estrazione di carbone da vapore o di petrolio dagli scisti bituminosi siano superiori al 10%. Una scelta dello stesso segno è stata fatta dall’Università di Oxford che ha deciso lo scorso maggio di escludere futuri investimenti del suo fondo multimiliardario sia nel carbone che negli scisti bituminosi, rifiutando però la richiesta avanzata da un movimento tra i suoi stessi studenti, di azzerare ogni investimento fossile (notizia riportata dal The Guardian, ndr).

Queste decisioni, prese da soggetti di grande visibilità, non sono che quelle più rilevanti e fanno parte di una vera e propria escalation di cui dà conto l’associazione internazionale BankTrack. Solo nei primi sei mesi del 2014, infatti, molte sono state le operazioni di disinvestimento dal carbone e dalle fossili: a gennaio Goldman Sachs ritira un finanziamento per il terminale carbonifero a Cherry Point nella West Coast americana, a marzo IFC ed EBRD cancellano un investimento nella raffineria SOCAR e nel progetto associato di centrale a carbone in Turchia, a maggio l’Università di Stanford annuncia che non investirà più i propri fondi in circa 100 aziende che hanno come attività principale l’estrazione di carbone, tra maggio e giugno quattro importanti gruppi bancari – Deutsche Bank, HSBC, RBS e Barclays – annunciavano che non avrebbero finanziato l’espansione del porto carbonifero di Abbott Point in Australia.

L’analisi del consumo di carbone in Cina relativa ai primi 4 mesi del 2015 mostra una riduzione dell’8% rispetto allo stesso periodo del 2014, con una riduzione relativa delle importazioni di carbone di quasi il 38%, una tendenza che potrebbe avere un significato strutturale. Nel complesso, le emissioni di CO2 della Cina nel primo quadrimestre del 2015 sarebbero scese del 5%.

Azzardi petroliferi in Artico

In un contesto in cui soggetti finanziari di grande rilievo hanno iniziato a disinvestire, la Shell prosegue col suo progetto di avviare la produzione petrolifera in Artico, seguendo le orme della russa Gazprom la cui prima produzione di petrolio estratto nel Mare Artico è stata avviata nel 2014. Questo nonostante le dichiarazioni del suo amministratore delegato a The Guardian, quando ammette che le riserve fossili non si possono bruciare finché non si trova il modo di sequestrare le emissioni di CO2 e che il suo stesso gruppo entro il secolo avrà una larghissima parte dei ricavi dalle rinnovabili. All’assemblea degli azionisti di qualche settimana fa veniva approvata una risoluzione per chiedere al management una maggiore trasparenza sui rischi legati ai cambiamenti climatici. Il noto economista Nick Stern, che aveva redatto un importante rapporto per il Governo UK nel 2006, attacca la Shell dicendo che l’azienda «sta chiedendo agli investitori di scommettere contro iniziative globali contro i cambiamenti climatici o contro il fatto che le rinnovabili possano sostituire le fossili» (La notizia è stata riportata dal The Guardian, ndr).

L’operazione in corso – portare la piattaforma Pioneer nell’Artico dell’Alaska – avviene dopo che già in precedenza, alla fine del 2012, un’altra piattaforma, la Kulluk, era stata portata da una tempesta – con venti a 30 nodi, non rari in quell’area delle isole Aleutine – verso le coste dell’Isola di Kodiak. Si tratta di produzioni di petrolio – cosiddetto “marginale” – rischiose sia per gli investimenti che per l’ambiente: un incidente petrolifero d’inverno col mare ghiacciato sarebbe, infatti, totalmente ingestibile.

Come la Gazprom, anche la Shell accetta forti rischi finanziari – ed espone l’area anche a forti rischi ambientali – per andare a estrarre il petrolio da zone remote come l’Artico. Ma anche solo guardando ai rischi finanziari, il gioco davvero vale la candela? A parte la questione ambientale – per la piattaforma Pioneer quest’anno verso l’Artico il rischio di incidente grave è valutato nel 75% di probabilità – emergono forti dubbi proprio dall’evoluzione sia del mercato delle rinnovabili che, più recentemente, da quello delle batterie elettriche, le cui curve di costo mostrano andamenti molto simili.

Bassi costi dell’elettricità da rinnovabili e batterie dai costi contenuti e dalle capacità accettabili modificheranno il mercato dell’auto. Si può solo scommettere su quando, ma il tempo è assai vicino, come mostra una recente analisi basata su dati ancora di qualche anno fa. La prospettiva, poi, di sviluppare batterie basate sull’alluminio anziché sul litio, potrebbe ulteriormente portare al ribasso i costi. Le auto elettriche sono già sul mercato (con costi persino accettabili per alcuni modelli) e in Norvegia rappresentano già il 14% delle nuove immatricolazioni.

Questa percezione che il cambiamento sia ineluttabile è condivisa dal Ministro saudita del petrolio, Ali Al-Naimi, che ha dichiarato: «In Arabia Saudita ammettiamo che, alla fine, uno di questi giorni non avremo più bisogno delle fonti fossili. Non so quando, se nel 2040 o nel 2050 o dopo. Così abbiamo avviato un programma per sviluppare l’energia solare» (The Boston Globe). Che un saudita possa immaginare di esportare energia solare anziché petrolio è segno che un’epoca nuova sta iniziando. E potrebbe andare più velocemente di quanto si pensi, esattamente com’è avvenuto per le fonti rinnovabili. Marchionne, con un certo ritardo, solo di recente è andato a vedere i progetti delle auto elettriche di Tesla, Apple e Google.

Quando anche la classe politica italiana – tutta affannata nel promuovere le trivelle e nel rallentare le rinnovabili – ne prenderà coscienza e farà atti mirati a costruire il futuro? Mai come in quest’epoca siamo stati così vicini sia a una svolta globale che a una nuova guerra in Medio Oriente dalle implicazioni assai pericolose.

L’articolo di Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace Italia, è stato pubblicato sul n.3/2015 della rivista bimestrale QualEnergia, con il titolo “2015: fuga dal carbone”.

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