Il clima che cambia causerà danni fino 13.800 miliardi di dollari per gli investitori

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L'allarme arriva da un nuovo report pubblicato dall'Economist. Anche se a fine secolo si fermasse ai 2 gradi dai livelli preindustriali, cioè l'obiettivo a cui si punterà nei prossimi negoziati internazionali, per gli investitori privati causerebbe perdite pari a 4.200 miliardi di dollari. Serve allora maggiore trasparenza sui rischi che il global warming pone all'economia.

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Il riscaldamento globale costerà molto caro all’economia mondiale. Anche se a fine secolo si fermasse ai 2 °C dai livelli preindustriali, l’obiettivo cui si punta nei negoziati internazionali, causerebbe agli investitori privati perdite per 4.200 miliardi di dollari al valore attuale, cioè pari all’intero PIL di una potenza come il Giappone o al valore delle azioni di tutte le compagnie dell’oil&gas del mondo. L’allarme arriva da un nuovo report pubblicato dall’Economist Intelligence Unit, gruppo di ricerca dell’omonima testata economica e intitolato “The cost of inaction” (vedi allegato in basso).

Se il target venisse mancato – come avverrà senza un’accelerazione nel taglio delle emissioni –  e si dovessero affrontare aumenti di temperatura maggiori, il danno economico crescerebbe. Con un aumento di 5 °C il mercato finanziario perderebbe circa 7mila miliardi di dollari: un buco paragonabile per entità alla capitalizzazione della borsa di Londra; se la febbre del pianeta salisse a + 6 °C, il danno per i mercati finanziari salirebbe a 13.800 miliardi di dollari, sempre al valore attuale, cioè quasi il 10% del totale degli asset considerati dalla ricerca, che ammonta a 143mila miliardi (vedi grafico).

Il conto è ancora più salato se visto dalla prospettiva del settore pubblico, considerando cioè investimenti più di lungo termine e tassi di sconto più bassi: per gli asset pubblici i ricercatori stimano che le perdite andrebbero da 13.900 miliardi con un aumento di 2 °C, a 43mila miliardi nello scenario più estremo (vedi grafico).

Gli impatti sarebbero distribuiti sia a livello geografico che di settori. Più colpiti gli asset legati a clima e risorse naturali come quelli nell’immobiliare, nelle infrastrutture, nel legname e nel turismo, ma le perdite, concentrate soprattutto nella seconda metà del secolo, si registreranno un po’ dappertutto e saranno dovute anche al fatto che il cambiamento climatico rallenterà la crescita di tutta l’economia.

Quello realizzato dall’Economist Intelligence Unit assieme a Vivid Economics, usando un modello chiamato DICE, è solo l’ultimo tentativo di quantificare gli impatti economici del global warming, capostipite di questo genere di lavori (e tra le basi di questo studio) è il rapporto Stern del 2006 che quantificava in un 5-20% del Pil mondiale i danni che potremmo avere dal riscaldamento globale.

Il messaggio che emerge dal rapporto dell’Economist è però mirato al mondo della finanza: “se gli asset manager sono consci del rischio clima per il valore a lungo termine dei portafogli che gestiscono, si potrebbe sostenere che ignorarlo è un’infrazione ai loro obblighi nei confronti di chi affida loro i propri investimenti. I fiduciari dovrebbero avere l’obbligo di ridurre l’esposizione al rischio clima dei loro portafogli”, si avverte.

Il rischio infatti al momento è decisamente sottovalutato: secondo Asset Owners Disclosure Project solo il 7% degli investitori calcola la carbon footprint del proprio portafogli e solo l’1,4% si pone esplicitamente l’obiettivo di ridurlo.

Qualcosa lentamente si muove: il fondo pensione nazionale norvegese, ad esempio, ha iniziato a tutelarsi dal rischio, disinvestendo dagli asset peggiori per il clima (carbone) e creando un fondo da 6 miliardi di $ per la sostenibilità. L’analogo fondo svedese sta disinvestendo dalle “peggiori” società in termini di emissioni di CO2, mantenendo peraltro inalterate le proprie prestazioni. Giganti delle assicurazioni come Aviva e Allianz stanno invece facendo investimenti miliardari in rinnovabili.

Da tempo gruppi di investitori chiedono più trasparenza sulla questione del rischio clima, visto anche come impatto che le politiche per contenere le emissioni avranno sugli investimenti in fossili. Ad esempio questa primavera oltre 60 investitori istituzionali statunitensi si sono rivolti alla SEC, il controllore del mercato azionario Usa, per reclamare chiarezza sui reali rischi che il cambiamento climatico e le politiche necessarie a frenarlo pongono ai business model delle compagnie oil&gas.

Da questo punto di vista un passo avanti importante è stato compiuto in Francia: a maggio il Parlamento ha votato una legge che impone agli investitori istituzionali di rendere pubbliche le informazioni sulla sostenibilità dei loro criteri di investimento, sulla carbon intensity del loro portafoglio e su come pensano di tutelarsi dal rischio-clima.

Il report dell’Economist “The cost of inaction” (pdf)

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