Superare il concetto di ‘rifugiati climatici’ per facilitare l’integrazione dei migranti

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Tra il 2008 e il 2013 i rifugiati legati ai disastri provocati dai mutamenti climatici sono arrivati a circa 140 milioni. Se ci limitiamo solo a contenere i loro spostamenti e continuiamo a considerarli come delle vittime, rischiamo di ostacolare la loro capacità di adattamento e di fare politiche di sostegno inadeguate. Un'analisi pubblicata sullo 'State of the World 2015' del WorldWatch Institute.

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Tra il 2008 e il 2013, in soli 5 anni, i rifugiati legati ai disastri provocati dai mutamenti climatici sono arrivati a circa 140 milioni. Senza contare quelli legati agli esodi graduali, causati dalla siccità o dall’innalzamento del livello del mare. “Se continuiamo erroneamente a considerare i migranti per cause ambientali solo come delle vittime, rischiamo di ostacolare la loro capacità di adattamento al nuovo contesto sociale e di ideare politiche di sostegno inadeguate”, cosí Francois Gemenne, docente del master in politiche ambientali dell’Istituto Sciences Po di Parigi e ricercatore senior dell’Università di Liegi, in un’analis pubblicata sullo State of the World 2015 del WorldWatch Institute.

La sua tesi è che è sbagliato interpretare i flussi migratori indotti dai cambiamenti climatici unicamente come una costrizione dovuta a cause di forza maggiore e non anche come una libera scelta degli individui che in autonomia stabiliscono quale sia il contesto climatico più adatto alle loro necessità.

Sulla scia di questa concezione parziale “i rifugiati climatici sono diventati il volto umano del global warming e i loro spostamenti sono visti come una minaccia per la sicurezza mondiale”, argomenta Gemenne.

Ad oggi, infatti, le politiche sui cambiamenti climatici considerano i flussi migratori come una incombente catastrofe dovuta unicamente alla difficoltà di adattarsi alle nuove condizioni climatiche in molte zone del mondo. Per questo motivo le strategie con cui ci si rapporta alla problematica si concentrano solo sul come ridurre le migrazioni – che si teme possano “inondare” i Paesi industrializzati – e non sul come facilitare l’integrazione sociale e culturale dei migranti nei Paesi di destinazione.

Concentrandosi sul ‘diritto a restare’, quindi, le politiche dimenticano il diritto degli individui a scegliere liberamente di non vivere nel contesto climatico del loro Paese di origine. Un desiderio spesso ostacolato da questioni economiche, burocratiche e legate anche alla difficoltà di ricollocarsi nel mondo del lavoro di un altro Paese, di cui non si conosce abbastanza.

Come affrontare quindi questo fenomeno in modo più adeguato? Gemenne individua due strade. La prima: creare per le popolazioni più vulnerabili le opportunità per migrare, migliorando l’accesso alle risorse, all’informazione e creando dei network che li supportino nella ricollocazione nel mondo del lavoro. La seconda: adattare i centri urbani dei Paesi industrializzati creando le condizioni per accogliere e integrare nella società le comunità di migranti.

Il vero obiettivo – conclude Gemenne – dovrebbe essere quello di riconoscere alle persone il diritto di scegliere quale strategia di adattamento ai cambiamenti climatici risponde meglio alle loro necessità, potendo stabilire individualmente se rimanere o partire.

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