Transizione energetica e clima, c’è poco da stare sereni

Le spinte che remano contro il cambiamento del sistema di approvvigionamento energetico e la lotta al global warming sono forti e agguerrite, e dalla loro parte stanno i governi da sempre organici all’industria energetica tradizionale. Uno sguardo, senza troppe illusioni, dal livello mondiale fino al nostro Paese. Ovunque si prova a rallentare un cambiamento che richiede invece una forte accelerazione.

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In molti confidano che dalla Cop 21 di Parigi possa uscire un risultato positivo e, per molti versi, storico per la lotta contro cambiamenti climatici. Si parla di svolta, di segnali che sembrano promettenti, di leader che si adoperano per la riuscita, e molte dichiarazioni ottimistiche si sprecano dopo l’importante Enciclica papale. Personalmente non ho mai creduto che un cambiamento di questa portata, anche se quanto mai necessario e urgente, possa avvenire in un quadro di accordo armonioso tra 196 paesi, spesso distanti tra loro nei fondamentali parametri economici, culturali ambientali ed energetici, sapendo poi quanto poco di concreto si riesce a produrre in consessi internazionali ben più ristretti ed omogenei.

Finora, e siamo a 21, l’approccio dei negoziati oltre a dimostrarsi fallimentare, non ha portato a nessun cambiamento determinante nel sistema di approvvigionamento energetico (e dove è stato intrapreso ha avuto origine da altre dinamiche). Il motivo è da ricercarsi nel fatto che ci si è mossi sempre nell’ambito circoscritto degli interessi dell’industria fossile-nucleare e della ricerca del consenso economico, oltre che energetico.

Un esempio è dato dal meccanismo dello scambio delle emissioni, rivelatosi, quando non controproducente, chiaramente inefficace allo scopo, ma sul quale la Commissione Europea vuole continuare a puntare, assicurando quote gratuite ai settori, dicono, che sono maggiormente esposti al rischio di rilocalizzazione. Insomma i negoziati internazionali sul clima sono stati finora un buon alibi per la stragrande maggioranza dei governi per procrastinare le decisioni più nette. Un continuo rinvio.

Ma non è questo che dovrebbe preoccupare. Altri rischi per il clima sembrano profilarsi all’orizzonte che si confondono e contrastano con le notizia più positive, che comunque ci sono.

Governi e istituzioni internazionali, da sempre organici e sinergici con la lobby dell’industria fossile, si dichiarano a volte, entro i propri confini, pronti a trattare per il clima, anche se poi sanno che la parola d’ordine è “o si va avanti tutti insieme oppure si aspetta il prossimo giro”. Il ‘rischio’ connesso alle loro dichiarazioni, quasi mai destabilizzante per l’industria energetica convenzionale, è comunque calcolato.

Governi molto ecologici nei proclami, ma poi, come svela l’ultimo rapporto del WWF International, capaci di forti contraddizioni. Un esempio? Finanziano in vari modi  i combustibili fossili, a cominciare dal carbone. Lo fanno sotto il tappeto, “Under the rug” (pdf), che è proprio il titolo del documento in questione. Si denuncia qui come i governi nascondono, grazie alla finanza pubblica, un notevole sostegno all’industria del carbone: circa 73 miliardi di dollari tra il 2007 al 2014.

Andiamo sul fronte dell’industria del petrolio. Piuttosto battagliera e indifferente a quei ‘fanatici ecologisti’ del G7 che hanno dichiarato in Germania, ad Elmau il 7-8 giugno, che usciremo, addirittura, a fine secolo dalla sua dipendenza (la dichiarazione dei Leader). Qualcuno l’ha anche considerata una notiziona. Nel seminario dell’OPEC di inizio giugno tenutosi a Vienna i ministri del Petrolio dell’OPEC, i capi delle più grandi aziende petrolifere e centinaia di addetti ai lavori dell’industria petrolifera, non sono sembrati affatto remissivi e spaventati dall’incombente negoziato parigino.

Da un articolo su MicroMega di Giuliano Garavini, presente a quel seminario, si capisce che è chiaro che tutti gli esponenti di questo settore concordano sul futuro aumento del conumo di combustibili fossili, in particolare petrolio e gas. Il segretario generale dell’OPEC, El Badri, prevede che nel 2040 il consumo di energia raddoppierà rispetto ad oggi, mentre nel 2030 il solo consumo di petrolio e gas aumenterà del 25% fino a 111 milioni di barili di petrolio equivalente al giorno. A credere che aumenterà il consumo di energia fossile, soprattutto quella “non  convenzionale” come lo shale oil e gas, ottenuti con la tecnica del fracking c’è anche il direttore esecutivo della IEA.

Il capo di Exxon ha detto che nel 2040 il consumo di energia aumenterà del 30% a causa della crescita della classe media globale e che il 75% di questo aumento verrà soddisfatto dai fossili. Il capo di Total dice che si dovranno trovare (esplorazioni nell’Artico?) 50 milioni di barili al giorno di petrolio in più per compensare l’esaurimenti dei giacimenti attuali. Come scrive Garavini “tutti questi potenti e autorevoli signori dell’energia prevedono consumi di idrocarburi in aumento e trivellazioni a tappeto entro il 2040 e chiedono ai Governi di pagare meno tasse per poter investire”. Ovviamente tutti, nessuno escluso, ritengono che l’accordo alla Cop 21 sarà ‘inoffensivo’.

Queste due finestre sul mondo dei fossili (e altre se ne potrebbero aprire) delineano uno scenario inconciliabile con gli obiettivi fondamentali per il clima e, ad esempio, con quanto ci ha detto la ricerca dell’Institute for Sustainable Resources dell’University College di Londra, apparsa a gennaio su Nature, dove si spiegava a quante riserve fossili conosciute bisognerà rinunciare per restare entro la soglia critica dei 2 °C: stiamo parlando dei 2/3 delle riserve economicamente sfruttabili che non dovranno mai essere estratte. Dunque, lo scenario che ne scaturisce sembrerebbe allo stato delle cose geopoliticamente ed economicamente improbabile perché su queste riserve ci puntano, oltre che le società di idrocarburi, pure gli Stati che vogliono fare cassa, come abbiamo già scritto su queste pagine. Però l’avvertimento ci dà l’esatta dimensione del problema del global warming e di cosa blocchi la macchina negoziale.

Scendiamo dal livello mondiale a quello continentale. Sul fracking europeo, dove BusinnessEurope, la Confindustria europea, è attiva con una forte azione di lobby, Polonia e Regno Unito vogliono sviluppare questa tecnica. La Commissione si limiterà a garantire che non ci siano impatti ambientali e per la sicurezza dei cittadini.

Ieri il commissario europeo per l’Azione per il clima e l’energia, Miguel Arias Canete, nell’audizione alle commissioni riunite Ambiente, Attività produttive e Politiche dell’Unione europea di Camera e Senato, si è detto poco fiducioso riguardo ad una applicazione dei carbon tax sui prodotti. “E’ difficile determinare il contenuto di CO2 dei prodotti importati – ha spiegato – e poi le regole del WTO dovranno essere rispettate; un tale strumento potrebbe suscitare reazioni dei principali partner commerciali e abbiamo visto nel contesto dell’inclusione dell’aviazione nell’Ets quanto sia difficile gestire questo tipo di reazione”.

Questo quadro di stallo non migliora se guardiamo l’orticello di casa. Sono bastate poche dichiarazioni del sottosegretario De Vincenti e del premier Renzi nel corso degli Stati Generali dei cambiamenti climatici per gettare ancora di più nello sconforto chi ha un’idea di modello energetico diverso per il nostro paese. Uno ancora parla di tecnologia ponte (il gas) per poi un giorno sviluppare al meglio, chissà quando e come, le rinnovabili e l’altro dice che c’è un ‘unico’ (?) nemico (il carbone) e che le rinnovabili da sole non ce la fanno. E poi le solite chiacchiere ottimistiche e tattiche per procrastinare le scelte e non intaccare più di tanto l’assetto energetico attuale. E illudere tutti che ci si sta lavorando (a questo servono questi Stati Generali, no?). I cambiamenti tecnologici richiedono invece sempre un’accelerazione; non vanno frenati né contingentati, ma guidati e favoriti.  

I fatti poi dicono il contrario sull’azione governativa intrapresa: leggi retroattive (spalma-incentivi, forse anticostituzionale), un pessimo decreto sulle rinnovabili, leggine e regole che attaccano la generazione distribuita, soprattutto il fotovoltaico, la tecnologia che fa più paura, trivellazioni per la ricerca di idrocarburi anche nei nostri mari, infrastrutture inutili come la Tap e l’elettrodotto dell’Adriatico, ecc.

Renzi chiede sei mesi di tempo per discutere di questa “priorità per il paese e per il governo” (ma “senza fare annunci shock”, ci mancherebbe), fino alla Cop 21. E poi? Tempo non c’è più, invece di rinnovabili quante ne vuole, caro presidente Renzi. Serve solo una strada chiara da intraprendere e subito, senza aspettare accordi al ribasso dall’esterno. Le tecnologie ci sono, le idee, i programmi anche e l’industria delle tecnologie pulite è pronta.

Qualcuno ha ancora voglia di farsi irretire dagli annunci e ha coniato l’hastag #matteotiteniamodocchio. Avrei preferito un più consono #climastaisereno.

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