Quella produzione da carbone dei Balcani che potrà entrare nell’Unione Europea

In diversi Paesi europei aderenti alla "Comunità dell’energia" sono in progetto diverse centrali a carbone. Così Balcani e Ucraina rischiano di diventare aree in cui “scaricare” la produzione di elettricità sporca. Il rischio per Bruxelles è ritrovarsi a gestire altri impianti obsoleti e inquinanti, in palese contraddizione con gli obiettivi europei su clima ed energia.

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Le contraddizioni della politica “salva-clima” europea sono sempre dietro l’angolo: stavolta sotto i riflettori sono finiti alcuni Paesi dell’area balcanica che rientrano nella Comunità dell’energia. Perché in quella regione si costruiranno parecchi nuovi impianti a carbone, con il benestare – anche finanziario – di Bruxelles. L’allarme arriva da CEE Bankwatch, un’organizzazione non governativa che monitora le attività delle istituzioni finanziarie nell’Europa centrale e orientale. Tra le sue attuali campagne c’è quella contro il carbone in Bosnia-Erzegovina, Macedonia, Kosovo, Montenegro, Serbia e Ucraina. Tutte Nazioni che stanno pianificando la realizzazione di centrali fossili. Quasi 15 GW di potenza totale (la maggior parte aggiuntiva rispetto a quella esistente, senza chiusure di vecchi impianti), secondo uno studio commissionato da Bankwatch a Change Partnership.

La Comunità dell’energia

Il trattato che ha istituito la ‘Comunità dell’energia’, entrato in vigore a luglio 2006, ha esteso il mercato interno dell’Unione Europea oltre i suoi confini, verso i territori dei Balcani e del Mar Nero. L’obiettivo è applicare le stesse regole in vigore nei 28 Stati membri, promuovendo gli investimenti nelle tecnologie pulite e nelle nuove infrastrutture con cui incrementare la sicurezza delle forniture, come gasdotti, elettrodotti e centrali termoelettriche.

Ma la politica energetica e ambientale di questa Comunità è davvero allineata a quella di Bruxelles? Dubitare è lecito, alla luce dei singoli piani nazionali, che prevedono di destinare molte più risorse di quanto immaginato in precedenza agli impianti a carbone. L’Ucraina da sola, per esempio, avrebbe in cantiere quasi 9 GW di centrali super inquinanti, diversamente da quello che si legge nella strategia ufficiale della Comunità dell’energia.

Quindi lo sforzo europeo di ridurre progressivamente il carbone dal mix elettrico, come sta sperimentando pur con grandi difficoltà la Germania, potrà essere disconosciuto da alcuni Stati confinanti, che sulla carta sono alleati nella lotta contro i cambiamenti climatici. Secondo alcuni gruppi ecologisti (Climate Action Network, ad esempio), i Balcani e l’Ucraina diventeranno zone geografiche in cui “scaricare” la produzione di elettricità sporca.

Sarebbe un po’ paradossale, rimarcano gli ambientalisti, ricordando che Bruxelles finanzia quasi per intero la Comunità dell’energia. Il problema è che i Paesi balcanici potrebbero approfittare delle minori restrizioni finora applicate alle loro centrali termoelettriche, rifiutando gli standard ambientali più severi a carico degli impianti europei ed esportando così elettricità a basso costo nell’occidente del Vecchio continente.

Fonti fossili e mercato Ets

Secondo Bankwatch, tra una decina d’anni alcuni Paesi avranno un notevole surplus energetico: la Serbia, per esempio, potrebbe esportare fino a 18.000 GWh l’anno di elettricità nel 2024. In un mercato sempre più regolato e competitivo, però, il rischio concretissimo è trovarsi con stranded asset, attività economiche non più remunerative perché obsolete, ridondanti o colpite da particolari norme ambientali. Il carbone rientra a pieno titolo in questa categoria. Soprattutto se i futuri impianti balcanici e ucraini (Serbia e Montenegro stanno già negoziando l’ingresso nell’Unione) decideranno di attenersi ai vincoli anti inquinamento imposti dalla legislazione comunitaria.

Ecco alcuni calcoli di Change Partnership: con un prezzo della CO2 pari a 5 euro/tonnellata, che è perfino inferiore ai già bassi valori attuali (sui 7 €/ton) dei  crediti del carbonio sul mercato Ets, le centrali fossili esistenti nei Paesi della Comunità dell’energia costerebbero ai rispettivi Governi almeno 575 milioni di euro l’anno. Le installazioni a carbone in agenda, invece, costerebbero altri 133-317 milioni ogni dodici mesi. Ma con un prezzo della CO2 più elevato, nell’ordine di 30 €/tonnellata nel 2025 (un livello auspicabile con una revisione dello schema Ets), il conto finale sarebbe molto più salato, fino a sfiorare 2 miliardi di euro l’anno di esborso aggiuntivo per “compensare” le emissioni nocive dei futuri impianti a carbone.

Tutto dipenderà da due fattori. Innanzitutto, la riforma del mercato del carbonio che interessa moltissime industrie europee. Dovrebbe scattare nel 2019: le quote eccedenti, che hanno fatto schizzare verso il basso il prezzo della CO2, disincentivando gli investimenti in fonti rinnovabili ed efficienza energetica, finiranno in un deposito “di riserva” per bilanciare domanda e offerta, riportando in alto il valore dei titoli. Il secondo fattore è l’introduzione di una qualche forma di carbon tax nei Paesi extra-Ue, che a sua volta andrebbe a penalizzare l’output energetico da fonti fossili. Molto dipenderà, in buona sostanza, anche dalla forza con cui la Commissione Europea riuscirà a far accettare oltreconfine la sua visione energetica low carbon, partendo proprio dal prossimo incontro a giugno della Comunità dell’energia.

Lo studio Bankwatch (pdf)

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