Le crisi energetiche e climatiche dietro i barconi della disperazione

Cosa spinge milioni di persone a ritenere che la loro unica salvezza sia fuggire dai luoghi di nascita? Sacche devastanti di povertà strettamente legate alle guerre per l’accaparramento delle risorse energetiche e naturali e alla crisi climatica. E la comunità internazionale resta ferma alla ricerca di improbabili soluzioni multilaterali.

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L’opinione pubblica, non tutta purtroppo, è disorientata e turbata dal naufragio del barcone a largo della Libia dove erano stipate come bestiame forse 800 persone, affogate mentre erano alla ricerca dell’unica possibilità di affrancarsi dal terrore delle guerre e della crescente povertà.

Nonostante questa sia una tragedia immane è solo la punta di un iceberg. In giro per il mondo oggi si stima (fonte: UNHCR) un popolo di rifugiati che assommano a 50-60 milioni di persone, pari a quasi tutti gli abitanti dell’Italia che decidono di mettersi in cammino. Una cifra che potrebbe quadruplicare nei prossimi decenni. Scappano dal luogo dove sono nate e cresciute perché non hanno alternative.

Ma da dove fuggono queste uomini, donne e bambini? Oggi nel mondo ci sono 30 conflitti dichiarati e altre aree di crisi dove la sopravvivenza è pressoché impossibile, un concetto, questo, difficile da percepire per un cittadino che vive e lavora in un Paese relativamente ricco.

Provando a semplificare le complesse motivazioni che sono dietro a queste sacche devastanti di povertà possiamo indicare due cause principali: le guerre per l’accaparramento delle risorse energetiche (petrolio, gas e uranio) e naturali (acqua e minerali) e la crisi climatica. Su questo secondo aspetto, il rapporto annuale del centro studi norvegese International Displacement Monitoring Centre, ritiene che i profughi climatici sarebbero quasi tre volte il numero di quelli causati dalle guerre: nel 2013 c’erano circa 22 milioni di sfollati a causa dei disastri naturali, come siccità, alluvioni, perdita di fertilità dei terreni, desertificazione, il più delle volte causate dall’attività dell’uomo e proprio da quella ricerca spasmodica di risorse.

Le guerre. Le riserve di energia fossile e nucleare sono presenti in un numero relativamente ridotto di regioni e portano a un controllo militare di queste aree sia da parte dei grandi paesi industrializzati, direttamente e indirettamente, che da parte di leadership locali, spesso corrotte da lobby delle nazioni più ricche, che non hanno riguardo ai diritti civili e umani. Leadership peraltro armate da tutti, Italia compresa.

Le fonti energetiche fossili e nucleari richiedono lunghe catene di approvvigionamento, con la realizzazione di imponenti infrastrutture che assorbono investimenti che però hanno ricadute economiche minime sulla popolazione locale. Tutto ciò crea dipendenza e conflitti economici, politici e, più spesso, guerre o guerriglie palesi o sotterranee che provocano quella migrazione anche delle fasce di popolazione più scolarizzate.

La distratta opinione pubblica dovrebbe capire che trovare delle soluzioni definitive con interventi tampone (blocchi navali, respingimenti, corridoi umanitari, ecc.) è illusorio. Senza dubbio nel breve periodo bisognerà intervenire, sempre rispettando la dignità di queste persone. Ma è nel profondo che bisognerà agire.

Solo una accelerazione del passaggio a una decentralizzazione della produzione dell’energia, utilizzando le fonti rinnovabili e cercando di debellare in tempi rapidi la povertà energetica, potrà togliere quel combustibile, è il caso di dirlo, che alimenta la gran parte dei conflitti. Sempre a livello locale si dovrà agire per mitigare i danni che i cambiamenti climatici stanno arrecando all’agricoltura, alla pesca e alla vita quotidiana di tanta gente.

Tutto ciò richiede denaro, ma soprattutto etica, una merce rara. Se però la comunità internazionale avesse un minimo di raziocinio si attiverebbe per affrontare in modo pacifico e capillare queste crisi, anche con spirito egoistico, per tutelare, e questo è il paradosso, quell’ordine economico a cui tiene e che tanti disastri sta perpetuando nel pianeta.

Spesso parliamo di energia e di rinnovabili in termini tecnico-economici, distogliendo lo sguardo da una prospettiva ben più alta: la ragione profonda di una transizione mondiale verso le rinnovabili sta nell’efficienza macroeconomica, nell’indipendenza politica e nella garanzia della pace che esse possono assicurare.

Questo cambiamento, così difficile, come sappiamo, è ancora lontano. La comunità internazionale, a cui molti si affidano, è ingessata alla ricerca soluzioni multilaterali, intrise di tecnicismi, che ha dimostrato quasi sempre di condurre a risultati deludenti e a volte controproducenti.

Ci si dovrà muovere presto, tutti. Le soluzioni stanno nelle scelte di consumo dei cittadini, nelle idee sostenibili delle piccole comunità, in una rinnovata etica delle corporation, negli investimenti dei singoli Stati. Tutti, anche se a ranghi divisi, tornando a quei principi-obiettivi dell’Onu, oggi disattesi, che ispirarono i Millennium Development Goals, sperando che l’azione di ciascuno possa essere contagiosa. Ma per fare questo dobbiamo essere informati, oltre la superficie degli avvenimenti. Forse proprio qui sta il più difficile.

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