Bolla del carbonio, investitori USA chiedono chiarezza sui rischi

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Una coalizione di 60 investitori istituzionali chiedono alla Security and Exchange Commission, il controllore del mercato azionario staunitense, di imporre alle compagnie delle fossili la pubblicazione di informative chiare sui rischi che i loro asset potrebbero correre con l'approvazione di politiche che puntino a frenare il cambiamento climatico.

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Oltre 60 investitori istituzionali statunitensi si rivolgono alla SEC, Security and Exchange Commission, il controllore del mercato azionario Usa: vogliono chiarezza sui reali rischi che il cambiamento climatico e le politiche necessarie a frenarlo pongono ai business model delle compagnie oil&gas.

La coalizione, che comprende il grande fondo pensione americano, Calpers, e diversi tesorieri degli Stati Usa, in una lettera (allegato in basso), chiede alla numero uno della SEC, Mary Jo White, di imporre alle compagnie delle fossili la pubblicazione di “informative eloquenti e sostanziali sui carbon asset risk”, sulla falsariga di quanto avviene per altri fattori esogeni come gli andamenti di commodity e valute.

“Mi sorprenderebbe molto sapere che colossi come ExxonMobil e Chevron non portano avanti analisi interne su quale sarebbe l’impatto sulle loro riserve di un cambiamento nel nostro uso di combustibili fossili”, ha spiegato Shanna Cleveland, senior manager dell’organizzazione non-profit Ceres (primo promotore dell’azione assieme a Carbon Tracker Initiative). “Sono queste informazioni, quelle di carattere tecnico estremamente particolareggiate, che gli investitori vogliono conoscere”.

Proprio ieri, il maxi-fondo Calpers è riuscito a far approvare a larghissima maggioranza (98% dei voti) nel corso dell’assemblea annuale degli azionisti di BP una risoluzione, sostenuta anche dal presidente Carl-Henric Svanberg, che prevede l’avvio di stress test legati ai rischi per i cambiamenti climatici.

L’iniziativa degli investitori Usa è solo l’ultima di una lunga serie di azioni volte a sensibilizzare sul rischio della cosiddetta bolla del carbonio. Una campagna che ultimamente ha portato a prese di posizioni molto significative, come quella della Banca d’Inghilterra e del Fondo sovrano norvegese, che hanno iniziato a tutelarsi dal rischio, mentre anche l’Onu ha di recente invitato a disinvestire dalle fossili.

I motivi sono noti e piuttosto semplici: se vogliamo evitare gli effetti più disastrosi del global warming dobbiamo lasciare sotto terra gran parte delle riserve di carbone, petrolio e gas: per stare sotto ai 2 °C almeno due terzi secondo la IEA e almeno l’80% secondo altre stime come quella di Carbon Tracker Initative.

A rischio, oltre al clima, sono anche i soldi di chi investe: le politiche per il clima e la transizione energetica verosimilmente impediranno di far fruttare adeguatamente gran parte degli asset in miniere e trivelle. Se si adottassero le politiche necessarie a fermare il riscaldamento globale, mostrano le stime del gruppo bancario HSBC, il valore di gran parte delle aziende delle fossili crollerebbe del 40-60%.

È questa appunto la bolla sulla quale stanno da tempo mettendo in guardia, oltre agli ambientalisti, i report di gruppi bancari e analisti come Citigroup, Deutsche Bank, Kepler Chevreux e Moody’s. Se non ci si muove già ora per cercare un atterraggio morbido gli effetti economici potrebbero essere disastrosi visto che la capitalizzazione legata alle risorse fossili su varie Borse al momento ha un ruolo molto importante – dal 20 al 30% in piazze come Londra, Mosca, Toronto e San Paolo – e che nelle fossili hanno investito e continuano ad investire moltissimo Stati, enti locali e grandi fondi pensione: circa il 72% delle riserve mondiali di petrolio, il 73% di quelle di gas e il 61% di quelle di carbone sono possedute o controllate indirettamente dalle nazioni.

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