La carbon tax che funziona: l’esempio British Columbia

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Nella provincia canadese la tassa sul carbonio contenuto nei combustibili fossili è stata introdotta nel 2008 e sta dando ottimi risultati. Ha permesso di tagliare le emissioni e stimolare l'efficienza energetica e, al contrario di quanto temevano alcuni, lo ha fatto senza aumentare la pressione fiscale e l'inflazione, e senza deprimere l'economia.

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La carbon tax può essere un meccanismo efficace per ridurre le emissioni, senza frenare l’economia e aumentare la pressione fiscale: la dimostrazione arriva dalla provincia canadese della British Columbia (BC). Visto che in questo periodo si parla molto di una possibile tassa sulla CO2 è dunque il caso di ricordare quel che hanno fatto da quelle parti.

Ma iniziamo facendo un passo indietro: fra gli strumenti che gli Stati hanno finora elaborato per contenere le emissioni di CO2 i due principali ‘contendenti’ sono gli schemi di trading delle quote di CO2 e la carbon tax. I primi sono meccanismi di mercato nei quali vengono assegnate quote di emissioni ai grandi emettitori che devono rispettarle o comprare quote negative da quelli più virtuosi, le seconde sono tassa ad hoc sui combustibili fossili modulate in base al contenuto di carbonio.

I meccanismi di emission trading sono un po’ i ‘cocchi’ delle grandi industrie, perché, nella loro complessità, offrono svariati modi per essere aggirati. Si veda a proposito quanto successo nell‘ETS europeo, sostanzialmente fallito per le quote di emissioni gratuite assegnate dai governi, come dimostra il costo attuale dell’acquisto di una tonnellata di CO2 “negativa”: circa 7 euro contro i 20-30 necessari affinché lo schema possa incentivare concretamente la riduzione delle emissioni.

Le varie carbon tax, invece, sono di una semplicità lineare e non sono eludibili: chi più usa energia fossile nelle proprie attività, più dovrà far pagare beni e servizi, diventando così meno competitivo con chi invece utilizza energia non fossile. L’ammontare delle carbon tax può inoltre essere velocemente variato per adattarlo alla contingenza economica e al costo dell’energia; gli introiti possono poi essere destinati a scopi specifici per controbilanciare il loro effetto depressivo sui consumi, ad esempio la promozione dell’efficienza energetica.

La critica principale che si fa alle carbon tax, è invece quella di essere tasse antiprogressive, e dunque di pesare in proporzione di più sulle persone a basso reddito, che spendono una parte più alta dei loro guadagni per l’energia e che con maggiore difficoltà possono permettersi dispositivi high-tech per ridurre i consumi. E, naturalmente, sono accusate di essere tasse che affossano la crescita economica e aumentano la disoccupazione, perché fanno crescere la pressione fiscale, penalizzando industria e trasporti.

Per queste ragioni, anche se ci sono molte nazioni che hanno adottato una carbon tax, fra cui i Paesi scandinavi, Francia, Giappone, Costa Rica, India, il loro peso è stato spesso mantenuto blando e la loro applicazione limitata, così che all afine non ha influito molto sulla riduzione delle emissioni. Nel caso di Australia e Nuova Zelanda, la carbon tax è stata addirittura abolita dopo pochi anni.

In Italia la carbon tax è già prevista dalla legge di delega fiscale (all’articolo 15 della legge n. 23 del 2014), ma per ora è rimasta sulla carta, perché legata ad una proposta di una direttiva europea sulla tassazione dei prodotti energetici che non si è poi concretizzata.

Secondo molti, proprio questo periodo di basso costo del petrolio potrebbe rappresentare il momento giusto per l’introduzione anche in Italia di una efficace carbon tax. Se questa ipotesi si concretizzasse, invece di inventarci chissà cosa, forse sarebbe il caso di imitare quello che è forse l’esempio di carbon tax di maggior successo al mondo: quello, appunto, della provincia canadese del British Columbia, che l’ha introdotta nel 2008, seguendo un progetto molto ben studiato dell’allora governo centrista (si veda anche quanto riportavamo a luglio).

Partita, per non creare shock economici, con l’imposizione di soli 10 dollari canadesi (CAD) per tonnellata di CO2 fossile prodotta (quindi più pesante sul carbone, media sul petrolio, più leggera sul metano), è via via cresciuta fino a raggiungere il previsto massimo di 30 CAD/tonCO2 nel 2012, generando oggi circa un miliardo di dollari canadesi di incasso l’anno per il governo provinciale (il PIL nel 2013 era di 229,7 mld $ canadesi, ndr).

In pratica, su ogni litro di benzina gli abitanti di Vancouver e dintorni, pagano 6,67 centesimi di dollaro canadese (su 1,20 $/l) per la carbon tax. La tassa viene riscossa come addizionale a tasse già esistenti a livello di pochi grandi distributori di combustibili fossili, coprendo così il 75% delle emissioni da fossili nella BC, in modo semplice ed efficiente, senza complicazioni contabili e possibili elusioni.

«Ma l’idea vincente alla base di questa tassa – spiega il giornalista scientifico Chris Mooney – è che è fiscalmente neutra: tanto entra con essa, tanto viene restituito ai cittadini. In pratica dei 5 miliardi di dollari CAD che ha fatto incassare fra il 2008 e il 2013, tre miliardi sono stati restituiti alle imprese tramite sconti fiscali, un miliardo è andato in tagli alle tasse sulle persone fisiche e un miliardo è stato destinato a sovvenzioni per i cittadini a reddito più basso e per quelli che vivono in zone climatiche più disagiate, cioè le fasce di popolazione che rischiavano di essere più penalizzate dalla carbon tax.»

Nella legge, addirittura, è previsto che se la tassa non dovesse risultare neutrale, lo stipendio del Ministro delle Finanze del BC verrà tagliato del 15%, una mossa di responsabilizzazione sulle conseguenze di una legge che in Italia sarebbe molto apprezzata.

Riassumendo, questa carbon tax non fa aumentare la pressione fiscale, non deprime l’economia (con l’eccezione del 2009, dal 2008 l’economia del BC è sempre cresciuta fra il 2,3 e il 5,6% l’anno), non penalizza i più poveri, ma al tempo stesso permette ulteriori risparmi a chi si impegna per aumentare la propria efficienza energetica e passa all’energia rinnovabile. L’astuto meccanismo con cui è congegnata rende addirittura difficile abolirla, anche se andasse al governo un negazionista climatico, perché sparirebbero con lei tutti i tagli di tasse correlati, scontentando moltissimi cittadini.

Tutto ciò ha fatto sì che la carbon tax della BC abbia una qualità veramente molto rara tra le tasse: è popolare, l’approva circa il 60% dei 4,6 milioni di residenti della provincia canadese.

Ma, viene da chiedersi, la carbon tax del BC ha raggiunto il suo scopo primario di ridurre le emissioni di CO2? Si direbbe proprio di sì, dato che il target di riduzione delle emissioni che la British Columbia aveva fissato per il 2012, -6% sul 2007, è stato raggiunto in pieno, nonostante in quel periodo il Pil della provincia sia aumentato del 18%.

«Ma è un po’ difficile stabilire quanto di questo successo dipenda dalla carbon tax – ammette Mooney – perché anche in BC si è comunque sentito l’effetto della crisi economica mondiale sui consumi energetici, e in questa provincia quasi tutta l’elettricità è idroelettrica, e quindi la carbon tax non agisce su quell’importante settore. Però, c’è un indicatore che può aiutare a capire: mentre nel resto del Canada al 2012 le vendite di carburanti per autotrazione erano più o meno quelli del 2007, in BC erano scese del 17%. E in questo settore del risparmio energetico, secondo gli economisti, l’influenza della carbon tax è stata notevole.»

Attualmente, però, l’efficacia della carbon tax in BC sta lentamente declinando, perché il suo impatto, fissato fino al 2017 a 30 dollari/tonCO2, viene eroso dall’inflazione. Da quell’anno, però, inizieranno le pressioni degli ambientalisti locali perché torni a crescere, e chissà se per quel periodo qualche lungimirante governo del mondo non si sarà accorto di questo intelligente strumento fiscale e non l’abbia imitato.

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