La socializzazione delle perdite dell’industria dello shale oil

CATEGORIE:

Prezzi del petrolio ai minimi e rischio imminente di una bolla finanziaria visto che nel ventre delle grandi banche di Wall Street ci sono circa 1.100 miliardi di dollari di titoli legati all'industria del fracking incapace di reggersi con questi prezzi. Il governo Obama allora approva un eventuale salvataggio delle banche a spese dei contribuenti.

ADV
image_pdfimage_print

Abbiamo parlato spesso del rischio di una bolla finanziaria collegata al collasso dell’industria delle fonti fossili e dello shale gas e oil in particolare. Collasso che, si ipotizza, potrebbe essere causato da un eventuale futuro accordo sul clima che imponga una forte limitazione delle emissioni. La crisi potrebbe però essere anche molto più imminente e il pericolo di insolvenza per il sistema finanziario avere ripercussioni devastanti.

A dare una interessante chiave di lettura è un articolo di Ben Ptashnik, ex senatore democratico americano e oggi imprenditore nell’energia solare. L’articolo apparso su Truthout è stato ripreso e tradotto da Effetto Risorse, il blog di Ugo Bardi, cosa vi dice in estrema in sintesi?

I prezzi del petrolio da sei mesi in diminuzione, pilotati dall’Opec e soprattutto dall’Arabia Saudita per distruggere l’offerta di shale oil e sabbie bituminose, creeranno uno shock finanziario di proporzioni enormi. E visto che il settore finanziario, Wall Street per intenderci, ha investito finora ingenti somme nelle obbligazioni spazzatura (almeno il 15% è basato su energia fossile) e l’industria per proteggersi dall’oscillazione dei prezzi ha stipulato con le banche ‘contratti derivati’ (una sorta di polizze assicurative) per proteggersi dalle fluttuazioni del costo di vendita dei combustibili, il sistema potrebbe andare a breve in default con insolvenze per circa 1.100 miliardi di $.

Le obbligazioni, vendute anche recentemente a ignari investitori, potrebbero diventare carta straccia, in quanto non sostenute, come si dice, dalle realtà contabili: proprio a causa del netto crollo dei prezzi petroliferi (oggi sui 46 $), troppo basse per mantenere la produzione di shale gas and oil.

Come si spiega nell’articolo di Ptashnik, e come abbiamo scritto su Qualenergia.it, il gap tra il denaro ricevuto dall’industria del fracking e gli introiti delle operazioni realizzate, pari a circa 110 miliardi di dollari già prima del calo del prezzo del barile iniziato sei mesi or sono, potrebbe ora creare perdite più ingenti, per centinaia di miliardi di dollari che ricadrebbero sul sistema finanziario (sempre le grandi banche di Wall Street) che hanno venduto questa scommessa al mercato.

Si è usato il condizionale, non tanto perché il prezzo del barile potrebbe risalire rapidamente. Secondo alcuni i sauditi fanno sul serio e non molleranno la presa anche perché hanno dalla loro un sostanzioso ‘cuscinetto’ accumulato negli anni di vacche grasse (i prezzi elevati dell’oro nero), ma solo perché le grandi banche, al solito, non subiranno il colpo: too big to fail, come si dice, ‘troppo grandi per fallire’. Chi pagherà allora questo buco, che ripetiamo alcuni stimano in circa 1.100 mld di dollari? Avete indovinato: i consumatori americani.

La lobby finanziaria si è mossa con urgenza, forse proprio perché il rischio di crisi sembra imminente. I gruppi di pressione hanno portato il governo Usa ad inserire all’ultimo minuto una perfida postilla nella legge finanziaria che potrebbe obbligare i contribuenti a pagare il default nel caso in cui la bolla del mercato dell’energia implodesse (si esentano le istituzioni finanziarie dalle loro responsabilità sui derivati), un evento probabile anche con un prezzo del barile un po’ più alto dell’attuale; e le previsioni non danno segnali di grandi significativi rialzi entro il 2015.

Il salvataggio delle banche con i soldi dei cittadini, ventilano alcuni, potrebbe avvenire ‘legalmente’ con prelievi forzosi dai conti correnti, dando eventualmente loro in cambio titoli azionari della banca (di valore dubbio), extrema ratio che prima del blitz di fine anno, consentito dall’amministrazione Obama, era fortemente limitata.

Alcuni, come Larry Elliott su The Guardian, parlano di ‘contrappassoper gli Usa, che avrebbero voluto, in accordo con i sauditi, un calo del prezzo del barile per mettere fuori gioco Russia e Iran (esportatori di petrolio), ma ora con la probabile chiusura di diversi giacimenti da fracking e il rischio bolla finanziaria si sarebbero messi in un bel ginepraio.

Per uscirne si confida sempre nella solita alleanza tra politica e big industriali-finanziari: scaricare le perdite sulla collettività e mandare a quel paese il mercato che si esalta invece solo quando si fa profitto.

C’è un altro risvolto della medaglia al centro dell’articolo di Ptashnik. Quando parte dell’industria del fracking verrà smantellata quali saranno i responsabili che verranno additati al pubblico ludibrio? Gli squali di Wall Street, gli investitori e gli ‘alleati’ sauditi oppure gli ambientalisti che, “spinti da Putin” (alcuni questo affermano), sono ostili alla fratturazione e all’oleodotto di Keystone che trasporta petrolio da sabbie bituminose del Canada e che avrebbero potuto rendere finalmente gli States indipendenti?

Domanda retorica. Che verrà, ne siamo certi, ben gestita ad arte dalla stampa asservita che confermerà ancora una volta la prima strategia del decalogo indicato da Noam Chomski per la manipolazione delle persone attraverso i mass media: la “distrazione”. La distrazione dai problemi importanti e dai veri responsabili per capire realmente cosa accade e che è necessaria per impedire di interessarsi delle cose essenziali che accadono nelle vite delle persone

Un motivo di più per comprendere che i profondi cambiamenti dei nostri sistemi dovranno comunque essere spinti dal basso, dalle comunità, dalla conoscenza indipendente. Delegare alla politica e alle élite economiche la tutela dell’ambiente, della salute, della pace, o al limite del portafoglio dei cittadini, così come pure la lotta ai mutamenti climatici è da ingenui.

ADV
×