Il grande idroelettrico nel mondo: in arrivo uno “tsunami” da 3700 dighe

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Nel mondo 3700 progetti idroelettrici sopra il megawatt sono in costruzione o in fase di studio. Un boom che, oltre che ad un aumento della produzione da fonti rinnovabili, porterà notevoli problemi ambientali e sociali, se non addirittura geopolitici, ma anche impatti sul clima, visto che certi bacini idroelettrici diventano un'importante causa di emissioni di metano.

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Quando immagina il futuro energetico del mondo, chi crede nelle rinnovabili generalmente pensa a distese di pannelli fotovoltaici, schiere di turbine eoliche che sorgono dalle onde, impianti che trasformano materia organica in biometano e magari ancora più avveniristiche centrali a onde o maree marine. Non certo a gigantesche dighe e centrali idroelettriche.

Non solo perché dalle nostre parti lo spazio per nuovi bacini idroelettrici è ormai quasi esaurito, ma soprattutto perché, in fondo, quei mammut di cemento appartengono anche loro all’era della grande produzione energetica centralizzata, che pare avviata al viale del tramonto.

Bene, chi la pensava così ha corso troppo, ci avvertono, in un articolo (allegato in basso) uscito sulla rivista “Aquatic Sciences”, Christiane Zarfl e Alexander Lumsdon, dell’Istituto Leibniz di Berlino per l’ecologia e la pesca nelle acque dolci: distratti dai progressi di eolico e solare, non abbiamo notato il boom prossimo venturo di quella che è ancora, e conta di restare, la principale fonte di elettricità rinnovabile: il secolare idroelettrico.

Il loro lavoro, “A global boom in hydropower dam construction”, segnala che nel mondo, in genere lontano dagli occhi dei cittadini dei paesi più ricchi, sta avvenendo una corsa senza precedenti alla realizzazione di grandi impianti idroelettrici, che porterà sì a un enorme aumento nella disponibilità di elettricità rinnovabile, ma anche a notevoli problemi ambientali e sociali, se non addirittura geopolitici.

Zarfl, Lumsdon e colleghi hanno essenzialmente passato al setaccio tutte le possibili fonti da cui ricavare notizie su progetti di grandi impianti idroelettrici: dai documento della Banca Mondiale ai siti internet specializzati, dagli articoli di giornale agli annunci delle imprese di costruzione, individuando ben 3700 impianti al di sopra del MW di potenza, che dovrebbero sorgere nel mondo nei prossimi decenni. Di questi, 629 sono già in costruzione.

Se tutti questi progetti fossero effettivamente realizzati, si tratterebbe di un aumento del 43% nel numero delle 8600 dighe già esistenti per la produzione idroelettrica, ma, vista la grande stazza media di questi nuovi impianti, la crescita della potenza toccherebbe il 73%: dai 980 GW attuali, a 1.700 GW.

Le nuove dighe sarebbero concentrate soprattutto in Asia sudorientale, America Latina e Africa, ma non mancherebbe un gran numero di impianti più vicini a noi, nei Balcani e in Turchia (vedi grafici sotto, clicca per ingrandire).

(a: impianti 1-10 MW;  b: >10-100 MW; c: >100-1.000 MW; d: >1.000 MW)

Alcuni di questi impianti alcuni supererebbero la decina di GW di potenza, e due di questi sono già in costruzione, in Cina (Xiluodu, 13,8 GW) e in Brasile (Xingu, 11,2 GW). L’impianto più impressionate sarebbe però quello da realizzare in Tibet nel gigantesco canyon – 400 km di lunghezza – scavato fra le montagne dell’Himalaya dal fiume Yarlung Tsangpo, il Brahamputra degli indiani. Mettendo in comunicazione con un tunnel scavato sotto una montagna, due tratti del fiume posti a 2800 metri di differenza di altitudine, i tecnici cinesi prevedono la realizzazione di una centrale da 50 GW, in grado di produrre 300 TWh l’anno, praticamente i consumi annuali dell’Italia.

Il progetto Grand Inga, nel bacino del Congo, sarebbe di poco più piccolo: con 80 miliardi di $ di investimenti da parte della World Bank e la Banca Europea per gli Investimenti, contano di realizzare una serie di dighe e centrali, per un totale di 40 GW di potenza, in grado di produrre da sole il 30% in più di tutta l’elettricità prodotta oggi in Africa.

In totale i 3700 nuovi impianti farebbero crescere la produzione idroelettrica del mondo dai 3.500 TWh attuali a 6.000, portando lo sfruttamento di tutto il potenziale idroelettrico mondiale dal 22 al 39%, e fornendo energia economica e rinnovabile, a molti di quei paesi dove risiede la maggior parte degli 1,4 miliardi di persone ancora non raggiunte dall’elettricità. Solo con uno sforzo costruttivo così imponente, notano gli autori, l’idroelettrico potrà mantenere la sua importante posizione, oggi al 16%, nel mix elettrico globale: visto il previsto grande aumento futuro di consumi energetici globali, se si costruiranno questi nuovi impianti, l’idroelettrico salirà al 18% del totale, ma se non ciò non accadrà il suo contributo crollerà al 12%.

Tutta questa frenesia costruttiva rappresenterebbe, quindi, un positivo passo avanti verso un sistema energetico mondiale senza emissioni di CO2, se non fosse che l’energia idroelettrica su grande scala ha numerosi lati oscuri. Prima di tutto, le 3700 nuove dighe ridurrebbero ulteriormente il numero ormai esiguo di grandi sistemi fluviali rimasti senza sbarramenti (free flowing river), facendoli passare da 120 a 95. Sbarrare i fiumi vuol dire danneggiarne l’intero ecosistema fluviale, impedendo il movimento della fauna acquatica e alterando il flusso delle piene, spesso benefico per l’ambiente intorno al fiume, e del trasporto dei sedimenti verso il mare. Il tutto in aree di particolare importanza ecologica, come l’Amazzonia, il Congo, il Mekong, che contengono da soli il 18% di tutte le specie di pesci di fiume del mondo, o i Balcani, che sono la più importante area di fauna d’acqua dolce d’Europa.

Da un punto di vista sociale, poi, la costruzione di grandi dighe significa costringere milioni di persone ad abbandonare fertili valli fluviali dove magari abitavano da millenni, rinunciando a usare le risorse che contenevano. E in zone ad alta intensità sismica e di geologia instabile, come il Tibet, c’è anche il rischio non indifferente che sbarramenti e bacini possano diventare, come sappiamo bene in Italia, fonti di disastri immani.

Inoltre, molti dei fiumi “bersaglio” delle nuove dighe, scorrono in più Paesi, e questo complica la gestione del flusso idrico, aumenta le tensioni internazionali in modo non molto diverso da quanto faccia la corsa ai combustibili fossili. Già nazioni come Sudan, Etiopia ed Egitto, per citare solo un esempio, sono ai ferri corti per le dighe da costruire lungo il corso del Nilo.

Infine, Zarfl e Lumsdon mettono in discussione anche uno dei principali motivi per cui si corre alla costruzione di così tanta potenza idroelettrica: avere una fonte energetica senza emissioni di gas serra. L’idroelettrico, avvertono i ricercatori, è in realtà una fonte di gas serra, soprattutto quando viene costruito in zone tropicali: la vegetazione lasciata a marcire nei bacini, può rilasciare tanti gas serra da rendere questi impianti, almeno nei primi anni di funzionamento, 10 volte più dannosi per il clima, a parità di elettricità prodotta, di quelli a carbone (su questo fenomeno che sembra sia stato finora sottovalutato si veda anche questo recente studio, ndr).

Certo, in media nel corso della loro lunghissima vita, gli impianti idroelettrici finiscono per produrre solo una frazione di gas serra delle fonti fossili: 85 gr di CO2 e 3 gr di metano per kWh, contro, ad esempio i circa 800 gr/kWh del carbone. Ma le enormi potenze che si intendono costruire rendono comunque non trascurabili le emissioni correlate: i nuovi impianti aggiungerebbero ogni anno un altro miliardo di tonnellate CO2 all’aria, rispetto ai 35 attuali.

E, secondo gli autori, tutto questo idroelettrico non contribuirebbe molto neanche a portare l’elettricità a chi non l’ha ancora: l’esperienza di questi anni in Africa mostra come i grandi impianti finiscano per alimentare, in modo quasi esclusivo, zone minerarie o industriali, passando con cavi e tralicci sopra ai villaggi senza elettricità. L’elettricità che sarà prodotta dalla stessa Inga 3, la diga da 4,8 GW prevista in Congo, ad esempio è già stata prenotata da compagnie minerarie locali e sudafricane. Ci sono paesi, come la Tanzania, dove l’energia idroelettrica locale potrebbe già alimentare tutta la popolazione, ma in realtà viene quasi integralmente esportata per usi industriali, così che solo il 20% dei tanzaniani ne ha accesso.

Per evitare questi problemi, gli autori raccomandano un maggior coinvolgimento delle popolazioni locali nelle decisioni sulla costruzione degli impianti e l’uso dell’energia, la riduzione al minimo dei progetti su fiumi ancora liberi, magari trasferendo la potenza su fiumi vicini già sbarrati e l’impiego di ogni possibile tecnologia per limitare l’impatto ambientale e umano.

In mancanza di questi accorgimenti anche gli impianti futuri saranno accolti con l’ostilità mostrata verso nuove dighe (non solo idroelettriche) negli ultimi mesi in Cile, Francia, Brasile, Guatemala, India, Indonesia, Namibia. Proteste anche violente che hanno rallentato o bloccato la realizzazione dei nuovi sbarramenti (si pensi alla recente uccisione, avvenuta il 26 ottobre scorso, sembra da parte delle forze dell’ordine, del giovane manifestante Rémi Fraisse durante gli scontri scoppiati nel fine settimana contro la costruzione della diga di Siviens, nel dipartimento del Tarn, in Francia, ndr).

Visto che i tempi sono cambiati e le popolazioni non sono più disposte a sopportare passivamente decisioni prese sopra le loro teste e danni ulteriori all’ambiente dove vivono, forse è veramente tempo di abbandonare una concezione “muscolare”, titanica e centralizzata della produzione energetica, rinnovabile o meno che sia, per passare a forme innovative più piccole, diffuse e accettabili dalle popolazioni, rispetto a quelle che distribuiscono rischi e problemi e portano altrove vantaggi e profitti.

Lo studio “A global boom in hydropower dam construction” (pdf)

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