Sussidi alle fossili: Italia e G20 continuano a finanziare le trivelle

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Nonostante la promessa di eliminare i sussidi alle enegie fossili, pari a 4 volte quelli per le rinnovabili, i paesi del G20 nel 2013 hanno erogato aiuti alle trivellazioni per 88 miliardi di dollari, come mostra un report. Nel dossier anche l'Italia che, oltre a misure di sostegno alle esplorazioni per 400 milioni di $, continua puntare sul 'nero' anche tramite la partecipata pubblica Eni.

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Per restare entro la soglia critica per il global warming dei 2 °C di riscaldamento, stima l’International Energy Agency (IEA), almeno due terzi delle riserve provate di petrolio, gas e carbone dovranno rimanere sotto terra. Eppure i paesi del G20 ogni anno destinano 88 miliardi di dollari di denaro pubblico per aiutare le compagnie a trivellare e sviluppare nuove riserve, questo nonostante la promessa fatta cinque anni fa di eliminare progressivamente gli aiuti alle fossili, a partire proprio da quelli per le esplorazioni. È quanto emerge da un report appena pubblicato dal britannico Overseas Development Institute e dall’Ong americana Oil Change International (vedi allegati in basso).

I sussidi alle fossili secondo la IEA (che considera solo quelli al consumo) sono arrivati in totale a 544 miliardi di $ nel solo 2012, contro i 104 miliardi destinati alle rinnovabili, mentre il Fondo Monetario Internazionale li stima in 1.900 miliardi $/anno. Il nuovo report delle due Ong mostra che a fianco ai sussidi per il consumo nei paesi poveri, ci sono consistenti sgravi ai produttori nei paesi ricchi. Un supporto ancora più difficile da giustificare.

L’industria delle fossili, mostra il dossier, è sostanzialmente tenuta in piedi dal denaro pubblico: le 20 più grandi compagnie private del settore nel 2013 hanno investito in esplorazioni 37 miliardi di dollari, cioè meno della metà dei sussidi pubblici stanziati dai G20 in quell’anno.

Questione climatica e ambientale a parte, questi aiuti – si scopre dal report – sono anche un pessimo investimento: ogni dollaro speso in sussidi alle fossili attira 1,3 dollari di capitali privati, cioè meno della metà rispetto agli incentivi alle rinnovabili, per i quali ogni dollaro speso ne attrae 2,5 dai privati. Un dato ancor più significativo se si pensa che gli 88 miliardi di sussidi per l’esplorazione delle riserve fossili nei G20 sono circa il doppio degli investimenti che la IEA stima sarebbero necessari per rendere universale l’accesso all’elettricità entro il 2030.

Venendo ai dati per singola nazione si scopre che gli Usa, dove i tagli proposti da Obama sono stati bocciati dal Congresso, dal 2009 hanno raddoppiato i sussidi per l’esplorazione (soprattutto esenzioni fiscali), portandoli a oltre 5,1 miliardi di dollari. L’Australia nel 2013 ha speso in aiuti allo sviluppo delle riserve fossili oltre 3,5 miliardi, la Russia 2,4 miliardi, il Regno Unito 1,3 miliardi. A questo si aggiungono i 521 miliardi che vanno alle trivelle passando per istituti multilaterali come la Banca Mondiale, che così contraddice la sua finalità dichiarata, cioè di promuovere lo sviluppo low-carbon.

Nel report non manca un focus sull’Italia (vedi allegato). Nel nostro Paese (dove secondo la stima di Legambiente il totale degli aiuti alle fossili arriva a 12 miliardi di euro l’anno) all’esplorazione vanno circa 407 milioni di dollari (327,5 milioni di euro), quasi tutti imputabili ai prezzi stracciati delle concessioni e delle royalties (si veda QualEnergia.it, L’Italia, paradiso delle trivelle e dei petrolieri) e in minima parte per l’esenzione delle accise sul gas usato nei processi estrattivi.

Altri circa 246 milioni di dollari (circa 198 milioni in euro) all’anno sono erogati sotto forma di investimenti e finanziamenti da enti pubblici come Cassa Depositi e Prestiti (CDP) e Servizi Assicurativi del Commercio Estero (SACE). Tra questi ci sono gli investimenti in esplorazioni fatti da Fincantieri Oil & Gas (100% CDP) e da Vard Holdings Ltd. (55,63% CDP, tramite Fincantieri), nei quai CDP dal 2010 al 2013 ha versato 630 milioni di dollari (507 milioni di euro).

Il report ci ricorda poi la situazione della nostra partecipata Eni, al 30% pubblica, con il 26% delle azioni in mano alla CDP e il restante 4% al Tesoro. In pratica con quelle quote abbiamo impegnato 20 miliardi di dollari (16 miliardi di euro) in asset fossili. Eni nel 2013, si legge nel report, ha investito 2,2 miliardi di dollari in esplorazioni. Tra i suoi progetti ci sono pozzi in acque profonde e “ultra-profonde” (in Angola, Brasile, Repubblica del Congo, Gabon, Nigeria e Golfo del Messico) oltre che altre riserve un po’ in tutto il globo, compreso l’Artico e il Mar Nero proprio alla frontiera tra Russia e Ucraina.

Nella situazione attuale – barile a prezzi bassi e necessità di tagliare le emissioni – dovremmo chiederci se è saggio che lo Stato italiano continui ad investire così i suoi soldi. Se si adottassero le politiche necessarie a fermare il riscaldamento globale, infatti, mostrano le stime del gruppo bancario HSBC, il valore di gran parte delle aziende del settore crollerebbe del 40-60%, scoppierebbe cioè la cosiddetta bolla del carbonio.

Oltre a questo, sembra poi scontato che la partecipazione massiccia dei governi all’industria delle fossili non favorisce certo il raggiungimento di un ambizioso accordo internazionale per ridurre le emissioni e, come mostra il grafico sotto, quasi tre quarti delle riserve fossili mondiali sono di proprietà o sotto il controllo indiretto degli Stati.

Il report The fossil fuel bailout: G20 subsidies for oil, gas and coal exploration” (pdf)

L’executive summary (pdf)

Il focus sull’Italia (pdf)

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