L’Italia della legna e del pellet, tra stufe all’avanguardia e boschi abbandonati

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Un mercato anticiclico, vivace e in crescita. Stufe e caldaie innovative, con ottimi rendimenti e basse emissioni, spesso made in Italy. Un consumo di legna e pellet enorme e sottostimato, soddisfatto però in gran parte dall'importazione, mentre i boschi italiani crescono sempre più abbandonati. Viaggio nell'energia dal legno con Marino Berton, presidente dell'Aiel.

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Pubblichiamo un articolo apparso su Qualenergia.it il 13 marzo 2014

Con oltre 10 milioni di sistemi di riscaldamento installati, legna, pellet e cippato hanno un ruolo di primo piano tra le rinnovabili in Italia. Le tecnologie si evolvono e anche a livello economico i numeri sono importanti: 700 milioni di euro di fatturato e 3.000 occupati solo nella produzione di stufe e per le caldaie un giro d’affari di 150 milioni e 2.500 dipendenti. In tutto questo successo non mancano i paradossi, come il fatto che importiamo gran parte della biomassa che bruciamo, mentre i nostri boschi restano spesso abbandonati. Ne abbiamo parlato con Marino Berton, presidente di AIEL, l’associazione italiana dell’energia dal legno.

Berton, il mercato delle stufe a legna e a pellet, e in generale del riscaldamento a biomasse legnose, sembra particolarmente vivace negli ultimi anni. Che aria tira nel settore?

È un settore anticiclico, che non sta risentendo della crisi e, anzi, in questi ultimi anni continua a crescere. Anche per via del costo unitario più basso va particolarmente bene il segmento degli apparecchi domestici, specialmente le stufe a pellet. L’anno scorso in Italia si sono venduti circa 200mila apparecchi a pellet. Tra stufe, inserti per camini e caldaie a pellet siamo arrivati circa 1,9 milioni di apparecchi installati.

Visitando la fiera di settore ‘Progetto Fuoco’ tenutasi a Verona il mese scorso siamo rimasti impressionati dalla gamma di prodotti disponibili: come stanno cambiando le tecnologie?

C’è un’articolazione di prodotti straordinaria. Ci sono stufe domestiche con efficienze impressionanti ed emissioni bassissime: ad esempio è stata presentata un stufa che rispetta già i severi standard che la Germania prevede di adottare in futuro. Oppure ci sono caldaie a pellet a condensazione. O, ancora, inserti vetrati con aspirazione forzata che permettono di raddoppiare l’efficienza di un caminetto a fiamma aperta. In generale poi la varietà di taglie e tecnologie è amplissima: dalla caldaia adatta al piccolo appartamento, fino al generatore per impianti di teleriscaldamento.

Che ruolo hanno le aziende italiane in questo settore?

Ci sono ottime aziende europee come anche italiane; la competizione è molto forte. Per quel che riguarda le caldaie, le imprese del Nord Europa hanno una tradizione più forte e una presenza qualificata anche sul mercato italiano, ma anche diverse aziende italiane stanno crescendo. Il mercato degli apparecchi domestici, cioè le stufe, invece è fortemente presidiato da produttori italiani che hanno conquistato fette importanti di mercati non solo europei ma internazionali.

In questo periodo il riscaldamento a biomasse può scegliere tra diversi incentivi: Conto Termico, detrazioni fiscali del 65% per l’efficienza energetica e detrazioni del 50% per le ristrutturazioni edilizie. Tra questi 3 strumenti quali stanno funzionando meglio?

Noi abbiamo creduto molto al conto termico, strumento ideale per una politica di sostituzione degli apparecchi obsoleti. Partito a luglio, ha però avuto un adesione bassissima per quel che riguarda il settore delle biomasse legnose: siamo sotto alle mille richieste. Nessuno lo conosce, è stata fatta pochissima informazione e l’accesso è piuttosto complicato: se ci crediamo, e noi ci crediamo, bisognerà semplificarlo. Per quel che riguarda le detrazioni fiscali per la riqualificazioni energetiche, quelle del 65%, si tratta di uno strumento di fatto quasi precluso per il riscaldamento a legna e a pellet: per accedervi bisogna sostituire anche gli infissi montando quelli con i migliori valori di trasmittanza. Le detrazioni per le ristrutturazioni edilizie, quelle del 50%, sono lo strumento che sta avendo più successo: è molto più facile accedervi, ma non pone nessun requisito qualitativo, penalizzando così le tecnologie più efficienti e l’innovazione. Altro incentivo da considerare sono i Certificati Bianchi: ad esempio la scheda 40E che premia la sostituzione di caldaie gasolio con impianti a biocombustibile solido è molto interessante e mutua molti dei principi qualitativi del conto termico.

Uno dei punti critici dell’energia dal legno sono le emissioni. Come si sta affrontando questo problema?

Le biomasse hanno emissioni di CO2 quasi nulle, ma hanno un problema di polveri, non tanto la parte di polveri costituita da sali minerali, innocui, ma quella degli IPA, idrocarburi policiclici aromatici, cioè la parte incombusta. Il problema si abbassa quanto più la combustione è fatta bene, con un giusto rapporto tra combustibile e comburente. Da questo punto di vista la tecnologia è migliorata tantissimo: le stufe moderne hanno una combustione ottimizzata e si fanno addirittura caldaie con sonda lambda, che misura l’ossigeno nei fumi e regola l’immissione aria di conseguenza. Poi ci sono soluzioni secondarie, come filtri catalitici, a nido d’ape, da installare sui tubi di scarico: per ora hanno senso solo su grandi impianti ma si stanno studiando prodotti anche per i camini di casa. Infine, va detto che le emissioni si possono ridurre di molto anche solo accendendo una stufa in maniera corretta …

Come si accende una stufa in maniera corretta?

Al contrario di come molti fanno: bisogna creare un castelletto con i pezzi più grossi sotto e la legna fine sopra e accenderlo da sopra. In questo modo si crea un moto convettivo che fa asciugare la legna sotto, mentre la legna sopra riceve l’ossigeno necessario. Basta guardare il camino per vedere come questo metodo funzioni.

Il contributo delle biomasse legnose al bilancio energetico del paese è sempre stato difficile da stimare: si tratta in gran parte di consumi fantasma, legna autoprodotta o commercializzata in nero. Il PAN, il piano nazionale sulle rinnovabili, che fissa gli obiettivi al 2020 per le diverse fonti, in particolare sembra aver sottovalutato il ruolo di questa fonte.

Il PAN per quanto riguarda le biomasse solide, per la parte termica, pone un obiettivo al 2020 di 5,2 Mtep. Noi abbiamo aggiornato i numeri con un criterio nuovo, partendo dagli output, cioè stimando i consumi degli apparecchi esistenti – dalle stufe, alle caldaie, agli impianti di teleriscaldamento, fino alla cogenerazione elettrica – e siamo arrivati a quantificare il consumo attuale in oltre 25 milioni di tonnellate di biomasse legnose, cioè 9 Mtep che diventano 8,5 togliendo la parte elettrica. Questo non vuol dire che bisogna smettere, ma che le biomasse possono darci molto per raggiungere obiettivi più ambiziosi al 2030, come il 30% di rinnovabili sui consumi proposto dal Parlamento europeo.

L’Italia è tra i più grandi consumatori di biomasse, ma pur avendo il nostro paese un patrimonio boschivo raddoppiato negli ultimi 40 anni, dipendiamo in gran parte dalle importazioni: come da dati AIEL compriamo all’estero, pellet e cippato per circa 1 miliardo di euro all’anno. Perché questo paradosso?

Lo scollamento è effettivamente impressionante: il 37% del territorio italiano è a bosco, la superficie dal 1950 è raddoppiata passando da 5 a 11 milioni di ettari e oltre alla superficie aumenta anche la provvigione, cioè la quantità di biomassa per ettaro. Nel contempo l’Italia è il penultimo paese in Europa per prelievi rispetto agli accrescimenti: preleviamo solo il 24% degli accrescimenti, cioè, per usare una metafora, il 24% degli interessi che maturiamo sul nostro capitale boschivo. Pochissimo: per fare un paragone l’Austria preleva il 70% degli accrescimenti. Questo non fa bene al bosco; è indice di un bosco abbandonato a se stesso.

Proposte per superare questo paradosso?

A me non piacciono le risposte assistenziali. Il bosco ha una funzione sociale, basti pensare alla difesa dal rischio idrogeologico o alla CO2 stoccata. Bisogna riconoscere questo valore. Ad esempio l’albergatore della Val Pusteria anche se non possiede bosco gode dei suoi servizi, dato che curando il bosco si tiene in ordine il territorio, con evidente ricadute positive sul turismo. Allora o decidiamo di far pagare un euro a ogni visitatore per il servizi offerti dal bosco o dobbiamo trovare altre strade per valorizzare l’economia del bosco. Importare biomassa costa meno perché non siamo stati capaci di organizzare la logistica. Per esempio iniziamo a creare piattaforme logistiche, importantissime per far partire l’economia del bosco. Oppure curiamo le strade forestali: indispensabili per la cura del bosco.

Il patrimonio boschivo è in larga parte proprietà di privati che non se ne curano, viste le funzioni di interesse pubblico che svolge dovrebbe essere la politica ad intervenire?

La politica deve dare le regole, la gestione deve essere fatta dai privati. Il 60% della superficie boschiva italiana è di proprietà di privati, in gran parte si tratta di boschi abbandonati, di proprietà di soggetti che non si conoscono più. In Italia in queste aree non si taglia essendo la proprietà privata sacra. In Francia hanno adottato un sistema diverso: si reputa un bene superiore la tutela del territorio per cui, in assenza del proprietario, i consorzi forestali entrano per fare taglio e manutenzione in queste proprietà. Il problema della politica di gestione forestale in Italia è che le competenze sono disperse. Per fare un esempio in Veneto dei boschi si occupano quattro assessorati diversi. Ci sarebbe invece bisogno di una regia unitaria che riporti a valore il sistema bosco.

A fine settembre 2014 Qualenergia.it pubblicherà lo Speciale “Riscaldarsi con il pellet e con la legna

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