Crescita insostenibile

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Le contraddizioni del nostro sistema economico quando si parla di green economy generano l’illusione di una sostenibilità mitica anziché reale. Per una crescita veramente sostenibile bisognerebbe invece affiancare allo sviluppo tecnologico anche politiche energetiche ed economiche coerenti. Un articolo di Angelo Tartaglia per la rivista QualEnergia.

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Nel rapporto sullo Stato del Mondo elaborato e pubblicato dal World Watch Institute nel 2013 c’è, fra gli altri argomenti che ci si potrebbe aspettare, un’interessante analisi riguardo al problema della sostenibilità. Si tratta dell’uso della parola ‘sostenibile’: analizzando la frequenza del termine in testi americani di lingua inglese a partire dal 1950, si riscontra un andamento crescente con legge esponenziale. Oggi la frequenza è intorno a 3 volte su centomila parole per anno ma, continuando così, nel 2036 ‘sostenibile’ comparirebbe in media una volta per pagina scritta e nel 2109 tutte le parole scritte sarebbero sempre ‘sostenibile’. Si tratta chiaramente di una crescita insostenibile.

Vi è però un altro termine il cui uso sta conoscendo un boom anche più vivace di ‘sostenibile’: si tratta della parola ‘crescita’; non c’è ormai dichiarazione televisiva o testo scritto di un politico, industriale, economista, imprenditore, sindacalista, commentatore delle più svariate tendenze che non la contenga più volte. Direi proprio che anche questa crescita nell’uso della parola ‘crescita’ è palesemente insostenibile.

Sembra che, di fronte a un problema reale e serio, che si manifesta nella forma di crisi economica endemica, conclamata o strisciante, la risposta di tutti, o quasi, coloro che hanno responsabilità tenda a essere magica: ci vuole la parola giusta; trovata quella, tutto si risolve e il cammino può continuare lungo i sentieri di sempre. La realtà però testardamente non si lascia esorcizzare dalle parole magiche, siano esse ‘sostenibilità’ oppure ‘crescita’ o magari le due insieme.

La situazione oggi, quarantadue anni dopo la pubblicazione del primo rapporto sui ‘Limiti della crescita’, è relativamente semplice nei suoi aspetti d’insieme. La globalizzazione e l’espansione dell’economia, secondo il modello europeo e americano, è avvenuta massicciamente, in questi decenni, a spese di risorse materiali non rinnovabili, che tendono a divenire scarse, con tutto quello che ciò comporta. La domanda globale di energia ha continuato a crescere all’incirca al tasso del 2% l’anno (raddoppio in 35 anni) ed è stata alimentata in massima parte da combustibili fossili, ovviamente non rinnovabili e fortemente impattanti. La dinamica di estrazione di qualunque risorsa materiale finita (cioè di qualunque risorsa materiale) segue nel tempo l’andamento descritto dalla curva di Hubbert, elaborata per prevedere l’andamento del mercato degli idrocarburi fossili e resa famosa dal cosiddetto ‘picco del petrolio’, ma in realtà valida sempre per qualsiasi cosa. In concreto, man mano che una risorsa non rinnovabile tende a divenire scarsa, il suo prezzo aumenta portando a una progressiva riduzione nel tasso di estrazione della risorsa stessa (vedi immagine di seguito).

Dal punto di vista razionale non c’è molto da dire o da ridire riguardo alla curva di Hubbert, ma chi ha responsabilità decisionali preferisce semplicemente ignorarla. Anzi, è particolarmente significativa l’euforia con cui da qualche tempo si parla di petrolio e gas da scisti e sabbie bituminose (non vorrei confondere, con questo inopinato italiano, chi è abituato a un gergo che aggiunge un tocco di mistero: sto parlando di shale oil e shale gas) o si osannano le meraviglie promesse dalla frantumazione idraulica delle rocce (fracking, per i gergofoni). Le corrispondenti risorse sono in realtà note fin dal XIX secolo: cominciano a essere estratte nel momento in cui il prezzo diviene alto abbastanza da rendere sostenibili i costi. Nulla di nuovo e nulla di miracoloso; l’importanza del fatto è a breve termine ed è essenzialmente politica (chi dipende da chi, chi egemonizza chi). La tendenza di fondo ovviamente non viene scalfita. Euforia ed esultanza ricordano l’atteggiamento di un tossicodipendente in crisi di astinenza, che riesce a recuperare una dose che gli consentirà di tirare avanti fino alla prossima crisi, senza per nulla liberarlo dalla dipendenza.

CO2 in crescita

Intanto il contenuto di CO2 nell’atmosfera è passato da 325 ppm (parti per milione) nel 1972, a 397 ppm oggi, e la tendenza non sembra essersi in alcun modo accorta dei buoni propositi formulati e poi smentiti e poi riformulati e così via, con il Protocollo di Kyoto o col programma europeo “20-20-20”.

Quanto alle risorse provenienti dalla biosfera, stando al citato rapporto del World Watch Institute, risulta che oggi l’umanità consuma ogni anno l’equivalente di un Pianeta e mezzo. Insomma stiamo prelevando risorse accumulate in precedenza ed è evidente che non si potrà continuare per molto tempo in questo modo.

In realtà, poi, quelle stesse risorse sono distribuite in maniera estremamente disuguale, tanto che se l’intera umanità dovesse adottare lo stile di vita del cittadino medio degli Stati Uniti, sarebbero necessarie, ogni anno, quattro Terre. Negli stessi Stati Uniti, per altro, la media è ottenuta tra estremi molto lontani. Indubbiamente la quantità di beni complessivamente disponibile oggi nel mondo è molto più alta di quella di alcuni decenni fa, pur mettendo in conto che anche la popolazione, dai primi anni Settanta a oggi, è raddoppiata (3,6 miliardi nel 1972 e 7,2 miliardi oggi).

Ciò che però colpisce è che in questi decenni le disuguaglianze sociali sono cresciute pressoché ovunque. Un indicatore utilizzato dagli statistici per misurare appunto la disuguaglianza è il coefficiente di Gini; il suo valore è compreso tra 0 e 100: 0 indica la perfetta uniformità del reddito (tutti hanno lo stesso reddito), 100 la completa disuguaglianza (una sola persona possiede tutto il reddito della nazione). Ebbene sembra che negli ultimi decenni il valore del coefficiente sia andato aumentando in moltissimi Paesi come gli Stati Uniti, la Cina, l’India, i maggiori Paesi europei (con l’eccezione della Francia), ecc. Data la differenza di ordinamento interno, di forma statuale e di cultura si direbbe che la tendenza a far crescere le disuguaglianze sia dovuta a cause strutturali dell’economia globale, piuttosto che a politiche contingenti di questo o quello Stato. Non è nemmeno difficile intuire quale sia l’aspetto strutturale: quando la finitezza delle risorse comincia a diventare visibile il meccanismo di crescita tende a trasferirsi dall’aumento della produzione all’aumento della disparità sociale.

I problemi connessi con l’economia della crescita che ho menzionato fin qui sono, per così dire, quelli classici. Vorrei citare un altro aspetto rilevante cui però fino a questo momento si è prestata un’attenzione alquanto limitata. Un’economia è essenzialmente una rete di relazioni di scambio. Ora, in una simile rete in crescita, la complessità cresce più rapidamente della rete stessa: il numero delle relazioni di scambio cresce più in fretta del numero dei poli che esse collegano. Maggiori dettagli su questo ragionamento li ho esposti nella relazione introduttiva al convegno “Science and the Future”, svoltosi al Politecnico di Torino dal 28 al 31 ottobre del 2013. Qui basterà osservare che l’aumentare della complessità pone problemi crescenti di controllo e di sicurezza del sistema e, stante quanto appena detto, il costo per mantenere il sistema sotto controllo e in condizioni accettabili di sicurezza cresce più in fretta del sistema e della ricchezza che esso produce. L’evoluzione nel tempo è quella presentata nella seguente figura:

La parte destra riporta la differenza tra ricchezza prodotta e costo del controllo e della sicurezza o, se si vuole, della gestione della complessità. In prospettiva il sistema tende a utilizzare tutte le risorse che produce per mantenere se stesso sotto controllo e a un livello accettabile di sicurezza, senza lasciare margini per fare altro. Aggiungendo il problema della complessità a quello della limitatezza delle risorse, la necessità che abbiamo davanti, a grandissima come a piccola scala, è quella di individuare una strategia d’uscita.

Se avessimo davvero cominciato quarant’anni fa oggi il cammino sarebbe più semplice, ma non serve recriminare come non serve rifiutarsi di guardare i fatti per quello che sono. La strategia di uscita punta in maniera piuttosto ovvia su due obiettivi fondamentali: stabilizzare prima, e quindi ridurre (realmente e in misura adeguata) la domanda globale di energia; stabilizzare, prima, e quindi ridurre (realmente e in misura adeguata) la quantità di materia lavorata dal sistema produttivo. Raccogliendo in uno slogan potrei dire: meno materia ed energia, più intelligenza. In vista di quegli obiettivi generali molte cose si possono fare e, in certa misura, si cominciano a fare.

Parlando di energia si tratta, da un lato, di migliorare l’efficienza nell’uso dell’energia stessa (riduzione del consumo a parità di servizio reso); dall’altro,  di sostituire le fonti non rinnovabili con quelle rinnovabili (sarebbe meglio dire perenni – o quasi – come il Sole). Tutto ciò evidenzia l’importanza della tecnologia e del suo sviluppo. Vorrei però sottolineare che la tecnologia può trasformarsi in una nuova illusione se non si accettano realmente gli obiettivi che ho richiamato prima cioè, in particolare, l’esigenza di stabilizzare e poi ridurre la domanda complessiva di energia. Basta osservare che, per via del limite posto dalla complessità crescente, se la domanda non si stabilizza il costo del miglioramento tecnologico cresce più in fretta della ricchezza prodotta e la società nel suo insieme si impoverisce, pur avendo l’illusione di essere più ricca, e diviene sempre più disuguale.

Marziani

Le ambiguità e le contraddizioni del nostro sistema economico quando si parla di ‘tecnologie verdi’ o ancor più di ‘economia verde’ (green economy) sono effettivamente molte e generano l’illusione di una sostenibilità mitica anziché reale. Provo a fare due esempi particolarmente rilevanti di contraddittorietà. Il primo è quello della mobilità individuale. Le statistiche dicono che in Italia circolano più o meno 6,4 autovetture ogni 10 abitanti (siamo il Paese più motorizzato d’Europa dopo Lussemburgo e Principato di Monaco). Un marziano in visita che facesse un giro per le nostre città e vedesse le autovetture parcheggiate sugli incroci, sui marciapiedi, in doppia fila, ecc., nonché i quotidiani ingorghi tipici delle ore canoniche dette ‘di punta’ concluderebbe che abbiamo troppe auto. Ora, motori ad alta efficienza e auto elettriche o ibride sono una buona cosa, ma non è il miglioramento tecnologico che possa curare il ‘troppo’, e le difficoltà del settore, ricordando il problema della sostenibilità, di certo non si risolvono puntando sul comparto del ‘lusso’, come recentemente avvenuto fra gli applausi bipartisan dei fautori del ‘mordi e fuggi’, ‘cogli l’attimo, poi si vedrà’ e così via. Mi pare di offendere l’intelligenza degli interlocutori osservando che per definizione il ‘lusso’ produce beni non necessari consumando risorse non rinnovabili.

L’altro esempio di contraddizione estrema è quello dell’edilizia. Nella regione Piemonte, tanto per citare un caso che non si discosta dall’andamento generale, in 15 anni (1995- 2009) sono state autorizzate cubature aggiuntive che corrispondono all’incirca a 66,2 m3 per abitante: grosso modo una stanza (grande) a testa in più rispetto a quelle che esistevano nel 1995. Il solito marziano troverebbe che si è costruito troppo e che la difficoltà per alcuni ad accedere al bene primario rappresentato dalla casa non è dovuta a scarsità del bene, ma a insufficienza delle politiche e a disomogeneità della struttura sociale. Bene quindi l’edilizia ad alta efficienza energetica, le case in classe A, l’integrazione dei pannelli termici o fotovoltaici nella struttura dell’edificio, ma non in aggiunta, bensì in sostituzione di un parco edilizio obsoleto e inefficiente. Ci sarebbe un recupero energetico per il riscaldamento e la climatizzazione, che senza sforzo può superare il 50% del consumo attuale, e un mare di lavoro a lungo termine, molto di più che con le mitiche grandi opere.

Con le cautele appena espresse, le razionalizzazioni e le energie rinnovabili hanno potenzialità enormi. Il fotovoltaico (e l’eolico) ha avuto uno sviluppo esplosivo nel nostro Paese (e nel mondo) in pochi anni, superando, in Italia, i 16 GW di potenza di picco (oltre a quasi 7 GW eolici). Tra l’altro, se anche il tasso di crescita del fotovoltaico si è ridotto, nel 2013, per via della riduzione e scomparsa degli incentivi monetari (limitati ora a quelli fiscali), si è anche ottenuta una contestuale riduzione di un ordine di grandezza nei costi, che fa ormai sì che il sistema possa stare economicamente in piedi sulle proprie gambe avendo nel frattempo attivato un numero di posti di lavoro a lungo termine rilevantissimo (più di 100.000, contando anche l’indotto).

Ma non voglio continuare a citare cose che dovrebbero essere ben note a tutti. Ricorderò solo, una volta di più, che le tecnologie dolci e ad alta efficienza e le fonti rinnovabili sono efficaci solo se accompagnate da politiche coerenti riguardo al complesso dell’economia. Ci vogliono veri piani energetici che fissino in modo vincolante obiettivi di ridimensionamento dei consumi; occorrono politiche territoriali e urbanistiche che preservino il suolo, fermino e invertano la tendenza alla dispersione dell’edificato; servono piani dei trasporti che, insieme coi piani regolatori, riducano gli spostamenti obbligati e il ricorso alla mobilità individuale; piani per la riduzione alla fonte delle future scorie e per la chiusura dei cicli nell’uso e riuso delle materie prime; politiche di sostegno alla formazione e alla ricerca. In generale, politiche che inducano una smaterializzazione, per quanto possibile, dell’economia. Qualcosa di tutto ciò esiste, ma il quadro resta incoerente e contraddittorio. Quel che è certo è che se si decide davvero di cominciare a cambiare rotta il lavoro non mancherà.

L’articolo di Angelo Tartaglia, Professore del Politecnico di Torino è stato pubblicato sul n.3/2014 della rivista QualEnergia.

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