Il nucleare d’Oltralpe potrebbe costare caro ai francesi di domani

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La Corte dei Conti francesi ha pubblicato una nuova stima dei costi per il decomissioning del parco nucleare nazionale: lievitati e pieni di incognite. I francesi rischiano di far pagare ai loro discendenti quanto hanno finora risparmiato con il MWh “low cost” da nucleare, peraltro già ora salito di prezzo fino a superare il PUN italiano.

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La Francia, tra le grandi potenze è la nazione che nel passato ha puntato con più convinzione sul nucleare. Oggi soddisfa il 78% dei consumi elettrici nazionali. Nel paese però il dibattito è sempre acceso: ci si chiede se, sicurezza a parte, l’atomo sia stato una scelta conveniente,  ossia su quale sia il rapporto fra i benefici economici ottenuti – essenzialmente elettricità a basso costo per qualche decennio e un imponente settore industriale dedicato – e i costi affrontati per mettere in piedi e far funzionare la filiera nucleare.

Fra questi costi uno dei punti più controversi riguarda l’ammontare della spesa necessaria per trattare e conservare in sicurezza, spesso per millenni, la scorie radioattive e quella per lo smantellamento dei vecchi reattori e degli impianti industriali dedicati, quando raggiungeranno la fine della loro vita.  Fine peraltro non lontana, dato che il grosso del nucleare francese è stato costruito negli anni ’80 e le centrali hanno una vita teorica di circa 40 anni, anche se a febbraio scorso, Electricitè de France (proprietaria dei 58 grandi reattori francesi, con una potenza di 63 GW), ha annunciato un investimento di 55 miliardi di euro per prolungare la vita di molte delle sue centrali per altri 20 anni.

Sull’entità della spesa per il decommissioning, le cifre che giravano fino a qualche anno fa erano le più disparate: da chi paventava un costo spaventoso che avrebbe mandato a gambe all’aria lo Stato francese, a chi minimizzava dicendo che i fondi messi da parte da EdF in questi decenni, con un prelievo in bolletta, per lo smantellamento, sarebbero stati più che sufficienti. A maggio la Corte dei Conti francese ha pubblicato una nuova stima dei costi (vedi documento qui, in pdf) probabilmente la più attendibile per indipendenza di giudizio: lo smantellamento del nucleare civile francese dovrebbe costare in tutto 87 miliardi di euro attuali, con 67 miliardi di euro a carico di EdF, 12 ad Areva (che costruisce i reattori e prepara il combustibile) e 7 ad enti di ricerca.

Gli 87 miliardi sono una grossa cifra, ma considerando che andrà spalmata su diversi decenni di lavoro, e tenendo conto della grande produttività del nucleare francese (circa 420 TWh annui, sui 480 totali di consumo elettrico), non sembra certo essere tale da stroncare l’economia francese. In fondo la più piccola economia italiana s’è accollati una decina di miliardi l’anno (anche se non indicizzati) per una ventina di anni, come incentivi per le rinnovabili.

Peccato che ci siano punti, in questi conteggi dei costi del decommissioning francese, che preoccupano la stessa Corte dei Conti. Il primo è che le società che dovrebbero, in teoria, pagare lo smantellamento, hanno messo da parte a questo scopo solo 43 miliardi di euro in tutto. Ne manca quindi più della metà, che dovrà essere raccolta nel periodo di vita rimasto dei reattori, con una ulteriore maggiorazioni della bolletta, se si vuole evitare che il conto finale finisca su chi questa elettricità nucleare non la userà.

Ma la capacità del kWh francese, un tempo economico, di assorbire ulteriori voci di spesa si è oggi molto ridotta, proprio per i costi (62 mld di euro entro il 2025, stima la CdC) che EdF sta affrontando per migliorare la sicurezza post-Fukushima e prolungare la vita dei suoi vecchi reattori: dal 2010 al 2013, il costo del MWh nucleare è aumentato del 20%, passando da 49,6 a 59,8 euro, e salirà ancora, calcola la CdC, fino a una media di 62 euro da ora al 2025. Per confronto, il costo attuale del MWh italiano in Borsa Elettrica si aggira intorno ai 50 euro per MWh.

Altrettanto preoccupante è il lievitare delle spese previste per lo smantellamento. Al momento nessuno sa in realtà quanto costi veramente smontare una grande centrale e riportarla a “prato verde”, visto che non è mai stato fatto finora. Si stanno smantellando in Francia una dozzina di vecchi impianti, tutti piccoli, tranne il Superphenix da 1.200 MW, ma questi lavori dovrebbero concludersi solo fra 2019 e 2035. Quello che è certo è che il preventivo fatto per la CdC nel 2010 è già aumentato di quasi il 10% nell’aggiornamento del 2014 (basato su dati 2013): da 32 a 34,4 miliardi totali.

Discorso simile per quanto riguarda la gestione delle scorie. I costi definitivi non li può ancora sapere nessuno, non essendosi ancora costruiti in nessun paese del mondo depositi sotterranei profondi definitivi per le scorie più pericolose, quelle di media e lunga vita. Le stime per il solo deposito profondo Cigeo, a Bure, nel nord-est francese, variano fra 14 e 28 miliardi; già in soli tre anni le stime sono lievitate da 43 a 48 miliardi, +13%. E si temono sorprese negative anche quando si andranno a bonificare gli attuali siti industriali nucleari nel cui sottosuolo chissà cosa è finito in questi 50 anni di attività.

Ovviamente oggi non è possibile sapere se e quanto questi costi stimati continueranno ad aumentare, e se gli aumenti del prelievo in bolletta per lo smantellamento, decisi da EdF su sollecitazione della CdC (nel solo 2013, si sono raccolti 1,8 miliardi, +14% sul 2010), riusciranno a chiudere il buco pregresso accumulato. Ma se la salita delle stime dei costi del decommissioning dovesse continuare al ritmo del 10% ogni tre anni, nel momento in cui, fra 30 anni, si porrà veramente mano alla dismissione del cuore del vecchio nucleare francese, le spese totali effettive potrebbero essere più che raddoppiate sule stime attuali. Sarebbe molto difficile immaginare che possano essere coperte da paralleli prelievi in bolletta, finendo quindi in larga parte sulle spalle di una generazione di francesi, che, non avendo neanche goduto direttamente del nucleare economico del passato, non sarebbero certo molto felice di pagare le spese lasciate dai nonni.

Per non parlare poi delle spese che, incrociamo le dita, i francesi potrebbero dover coprire in caso di un grave incidente nucleare. Quest’ultimo punto è sottolineato dalla CdC in un apposito capitolo, per la sproporzione fra fondi assicurativi disponibili e danni possibili: al momento EdF (e le sue assicurazioni) risponderebbe dei danni di un incidente nucleare fino a un massimo di 95 milioni di euro (che salgono a 300 milioni aggiungendo possibili fondi di garanzia statali e internazionali), ma il costo stimato di un incidente grave o gravissimo in Francia varia fra 70 e 760 miliardi di euro (120 e 450 miliardi, le stime più probabili).

Il programma nucleare francese, insomma, ha sicuramente risparmiato miliardi di tonnellate di CO2 al pianeta, ed evitato migliaia di morti, per gli incidenti e l’inquinamento dovuti al carbone, gas e petrolio, che avrebbero dovuto sostituirlo. Ma il bilancio finale della sua convenienza economica si potrà fare solo fra qualche decennio, sommando anche le spese effettive per l’allungamento della vita dei reattori e il decommissioning, agli esborsi già noti, come i circa 228 miliardi di investimenti iniziali, fra cui 55 miliardi in ricerca, che anche oggi continua al ritmo di 1,1 miliardi annui, di cui 750 milioni sono risorse pubbliche.

Certo, i francesi nei decenni scorsi hanno goduto del beneficio di una elettricità economica, ma se le spese del vecchio nucleare a fine vita cresceranno troppo, quanto hanno risparmiato nel passato rischiano di pagarlo i discendenti. Sempre che, come avverte la CdC, non ci sia una “Fukushima francese”: in quel caso il programma nucleare transalpino si trasformerebbe istantaneamente in un disastro economico, oltre che umanitario, senza precedenti.

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