Il miraggio del gas e la strada per ridurne la dipendenza

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Le fonti rinnovabili e l'efficienza energetica sono le uniche via per l’Europa e l'Italia per tagliare le importazioni di gas. Perché lo shale gas, anche di importazione Usa, è una strada impraticabile? Le scelte del Giappone e gli scenari futuri. L'editoriale di Gianni Silvestrini sull'ultimo numero della rivista bimestrale QualEnergia.

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La crisi dell’Ucraina ha riproposto con forza i rischi legati alla dipendenza dell’Europa (32%) dal gas russo. Questa preoccupazione è piombata nel bel mezzo della trattativa sugli obiettivi climatici del 2030, mettendoli in ombra rispetto al tema della sicurezza energetica. Le risposte più evocate hanno oscillato tra la richiesta agli Usa di accelerare la costruzione degli impianti di liquefazione per approfittare dell’abbondanza dello shale gas, la spinta per realizzare una filiera europea dei gas da scisti e la creazione di nuovi rigassificatori/gasdotti per diversificare gli approvvigionamenti di metano. Eppure tutte e tre queste risposte presentano elementi di debolezza. Al contrario, stupisce che non vengano lanciate con forza opzioni molto più concrete sul versante dell’efficienza e delle rinnovabili, che avrebbero il vantaggio di fornire risposte sicure e di sposarsi bene con l’impegno sul clima.

Le criticità delle proposte più gettonate sono date dai tempi lunghi e dalla loro aleatorietà. Partiamo dalle importazioni di gas dagli Usa. Il Dipartimento dell’Energia ha approvato i progetti di 7 impianti di liquefazione e ne sta analizzando diversi altri. Il primo a entrare in funzione nel 2015 sarà l’impianto di Sabine Pass in Louisiana; gli altri verranno realizzati negli anni successivi. Ma è improbabile che in Europa arrivino quantità considerevoli di shale gas. Innanzitutto, perché le metaniere prenderanno prevalentemente la via del Giappone che paga il gas liquefatto il 30-40% più dell’Europa. Le prime importazioni in Italia, in base a un accordo siglato dall’Enel, dovrebbero arrivare nel 2019.

Ma c’è un altro motivo, di fondo, che fa ritenere poco fondata questa prospettiva. Nell’arco del prossimo decennio, infatti, quando le importazioni in Europa potrebbero raggiungere livelli interessanti, la produzione dello shale gas statunitense secondo alcuni crescerà, ma c’è chi pensa che possa ridursi. Diverse analisi hanno messo infatti in guardia sul rischio che sul medio periodo la bolla possa scoppiare a causa dell’elevatissimo tasso di declino della produzione dei pozzi e degli enormi capitali necessari semplicemente per tamponare il calo di produzione. Nel 2012 sono stati spesi 42 miliardi di dollari per perforare settemila nuovi pozzi, a fronte di entrate per 32,5 miliardi di dollari dalla vendita del gas. Inoltre, nel prossimo decennio una parte del metano statunitense servirà per alimentare centrali a gas che rimpiazzeranno impianti a carbone e nucleari e per sostituire la benzina nei trasporti. Per finire, è illusorio pensare che i prezzi delle importazioni dagli Usa saranno inferiori rispetto a quelli pagati attualmente dall’Europa: prezzi più alti sono necessari per continuare l’estrazione dello shale gas.

Non ci si può quindi illudere che il flusso delle importazioni dagli Usa possa acquisire una rilevanza significativa. E comunque non prima del prossimo decennio. Le possibilità di sfruttamento in Europa sono, peraltro, ancora più problematiche.

Innanzitutto, la struttura geologica del sottosuolo rende l’accesso al metano più difficoltoso rispetto agli Usa; questo si traduce nella necessità di trivellare a profondità maggiori con costi 2-3 volte più elevati. Negli Stati Uniti, inoltre, c’è una conoscenza del sottosuolo molto maggiore, esiste una forte rete di infrastrutture di trasporto del gas e si sono accumulate competenze sofisticate sulle tecniche di trivellazione e sugli additivi (spesso tossici) da utilizzare. Le preoccupazioni per gli impatti ambientali di questa tecnologia – uso dell’acqua, inquinamenti, sismicità indotta – in un territorio molto più antropizzato rispetto a quello statunitense, hanno già portato cinque Paesi europei, inclusa la Francia che possiede le più grandi riserve di shale dopo la Polonia, a proibire il suo sfruttamento. Il maggiore entusiasmo si è registrato proprio in Polonia, finora però con scarsi risultati, e nel Regno Unito, dove cresce l’opposizione contro il fracking. Insomma, la corsa allo shale gas europeo si presenta molto impervia e su tempi lunghi. Se sarà possibile estrarlo, il suo contributo al 2030 sarà compreso tra un 3% dei consumi di gas fino ad arrivare, nelle ipotesi più ottimiste, a un 10%.

Passiamo ai nuovi rigassificatori e gasdotti. L’elemento di rischio, in questo caso, è quello di impegnare grandi risorse per impianti che – nello scenario di decarbonizzazione dell’economia europea, con tagli dell’80% delle emissioni climalteranti al 2050 cioè fra soli 36 anni – rischiano di rimanere sottoutilizzati. Nello scenario di riferimento al 2030 elaborato dalla Commissione si ipotizza per l’Italia una riduzione delle importazioni di metano del 16% rispetto ai livelli del 2010. Negli scenari di intervento la riduzione sarà anche più accentuata. Peraltro, le potenzialità di importazione del sistema Italia sono di oltre 130 mld metri cubi, il doppio delle attuali importazioni.

Una risposta però ai rischi sulla disponibilità del gas russo bisogna darla. E che sia efficace e che possa dare, se necessario, risultati anche in tempi brevi. Di fronte a un’emergenza occorre sapere rispondere in maniera incisiva. Efficienza e rinnovabili possono rappresentare la chiave.

Il Giappone dopo Fukushima punta sull’efficienza

Per valutare i risultati di una terapia d’urto, analizziamo quello che è successo in Giappone dopo Fukushima. La necessità di sostituire rapidamente il 30% della produzione elettrica fornita dalle 54 centrali nucleari, chiuse subito dopo l’incidente, ha portato a un mix di soluzioni: dall’efficienza, alla maggiore produzione di centrali termoelettriche convenzionali, alle rinnovabili. Al primo posto, con il 40% dell’elettricità sostituita, troviamo le politiche basate sul risparmio e sull’efficienza energetica. Si è partiti, sull’onda dell’emozione, con interventi volontari mirati a ridurre i consumi di illuminazione, di climatizzazione e di altri utilizzi elettrici, sostenuti da un movimento popolare che ha coinvolto famiglie e imprese, chiamato Setsuden.

È interessante sottolineare come una parte di questi elementi comportamentali abbiano garantito una loro efficacia anche dopo il primo periodo critico. Si sono poi aggiunte misure più strutturali per innalzare l’efficienza energetica nell’industria e nel settore civile. Il conglomerato industriale Komatsu, per esempio, ha ridotto i costi energetici del 40% in tre anni. I risultati complessivi di queste politiche, come detto, sono stati impressionanti, con un calo pari a 120 TWh/anno (equivalenti alla produzione di 16 centrali nucleari). È partita poi la corsa alle rinnovabili che ha visto lo scorso anno l’installazione record di 6,5 GW fotovoltaici, con un’accelerazione che potrebbe portare a 9 GW quest’anno. La Prefettura di Fukushima, scottata dal disastro, vuole diventare 100% rinnovabile entro il 2040 e ha autorizzato la costruzione di una centrale eolica off-shore da 1 GW da realizzare entro la fine del decennio.

La risposta basata sulla costruzione di nuove centrali a carbone e di impianti di rigassificazione potrebbe essere efficace sul medio e lungo termine, quando però sarà disponibile elettricità solare a basso costo e con una domanda elettrica che potrebbe essersi ulteriormente ridotta.

Efficienza e rinnovabili per ridurre le importazioni di gas

Ma veniamo all’Italia. Quali azioni si potrebbero attivare per ridurre la dipendenza dal metano? Sul fronte dell’offerta, accelerare l’introduzione di pompe di calore ad alta efficienza, caldaie a biomassa e solare termico. Proseguire poi la diffusione delle rinnovabili elettriche, in particolare del fotovoltaico, avviato a un percorso di crescita senza incentivi. Lanciare con forza l’utilizzo del biometano.

Sul fronte della domanda, infine, puntare sulla riqualificazione energetica spinta di interi edifici o addirittura di pezzi di quartieri, partendo dalle realtà rappresentate da costruzioni colabrodo dal punto di vista termico.

Con una politica decennale, che preveda un taglio annuo dei consumi energetici dell’1,5% nel settore civile, si potrebbe arrivare, tra 10 anni, a risparmiare circa 8 miliardi di metri cubi di gas all’anno, pari a oltre un terzo delle importazioni dalla Russia (22 miliardi di metri cubi).

Ma anche da noi il dibattito è più centrato sui rigassificatori e sullo shale gas americano che sul rilancio intelligente, economicamente anticiclico, di misure per l’efficienza e le rinnovabili. Misure che, comunque, in una situazione di tensione vedrebbero necessariamente una maggiore attenzione.

Riserve fossili deprezzate, disinvestimenti e clima

Tornando alla Russia, il suo atteggiamento spinge inevitabilmente l’Europa verso un percorso di maggiore autosufficienza e di riduzione delle emissioni di gas serra. Al contrario, un accordo sul clima vedrebbe congelate molte delle riserve fossili della Russia.

Un tema – questo dei combustibili fossili che non potranno essere utilizzati, “stranded” – che inizia a preoccupare. È significativo il fatto, per esempio, che la Exxon sia stata obbligata dai propri azionisti a chiarire i rischi legati al deprezzamento delle proprie riserve in caso di un successo dell’ecodiplomazia del clima. O che il vescovo sudafricano Desmond Tutu abbia richiamato la tecnica del boicottaggio, che ebbe successo ai tempi dell’apartheid, nei confronti degli investimenti nei combustibili fossili. O, infine, che anche il Presidente della Banca Mondiale, Jim Yong Kim, abbia affermato come vada considerata l’opzione di disinvestire dalle compagnie impegnate nel settore dei fossili.

La loro voce si aggiunge a quella della campagna Fossil-Invest, che ha coinvolto decine di università statunitensi e recentemente anche 17 associazioni filantropiche che amministrano risorse per due miliardi di dollari, volta a dirottare gli investimenti verso le rinnovabili. E le tecnologie verdi stanno ripartendo grazie alla riduzione dei prezzi e potranno volare nei prossimi anni. Al netto delle sostituzioni per decommissioning le rinnovabili elettriche hanno attratto nel 2013 circa il doppio di investimenti rispetto alle fossili. Nel 2014 gli investimenti cresceranno del 18% rispetto ai 254 miliardi dello scorso anno, per il fotovoltaico la potenza potrebbe aumentare del 27% arrivando a 47 GW.

Del resto, l’ultimo rapporto dell’IPCC, reso pubblico ad aprile, non lascia dubbi: per evitare esiti climatici catastrofici, occorre accelerare notevolmente l’utilizzo delle fonti rinnovabili arrivando a triplicare il loro contributo rispetto agli attuali livelli, in modo che possano dominare l’offerta di energia alla metà del secolo.

L’articolo è stato pubblicato sul n.2/2014 della rivista QualEnergia con il titolo “Il miragio del gas”

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