Nel mercato futuro dell’energia è problematico lo spazio per le ‘vecchie’ utility

Il settore elettrico sta attraversando una trasformazione strutturale che non si era mai verificata dall’inizio dello sfruttamento dei combustibili fossili. Arturo Lorenzoni, dell'Università di Padova, analizza questo processo con particolare attenzione alle utility e ai loro possibili cambiamenti. Un articolo pubblicato sul n. 2/2014 della rivista QualEnergia.

ADV
image_pdfimage_print

articolo in versione pdf

L’intero mondo dell’energia è nel pieno di una trasformazione strutturale che non si era mai verificata dall’inizio dello sfruttamento dei combustibili fossili. Pur consapevoli che anche l’industria del gas vive un’evoluzione critica, con volumi in calo e un conflitto diretto con gli obiettivi ambientali assunti su scala internazionale, ci si concentra di seguito sul settore elettrico. L’industria dell’energia, e dell’energia elettrica in particolare, si è sviluppata all’inizio del secolo scorso su alcuni assunti economici molto solidi e universalmente accettati: forti economie di scala, domanda in crescita e rigida, grandi investimenti da fare. Negli ultimi anni tutti questi fattori sono venuti meno e oggi non possiamo considerarne vero nessuno; l’industria è drasticamente cambiata, sia per ragioni di tipo tecnologico, valide in assoluto, sia per ragioni legate alla raggiunta maturità della domanda, valide per l’Europa.

Le economie di scala. La ricerca di rendimenti sempre maggiori per la produzione di energia elettrica aveva portato alla metà del secolo scorso alla costruzione di impianti di dimensioni enormi, al fine di beneficiare della riduzione dei costi di produzione. L’impianto standard per Enel negli anni ’70 era una centrale policombustibile con 4 gruppi da 660 MW, supercritica, che raggiungeva il 48% di rendimento. Un gioiello per il tempo, ma con una dimensione e un costo alla portata di pochi, dell’ordine di 5 miliardi di euro odierne. Oggi superiamo quei rendimenti con impianti con costi unitari dimezzati e taglia dell’ordine di 1 MW. Perché dunque avventurarsi nella costruzione di grandi impianti, osteggiati dalla popolazione, difficili da finanziare, rigidi nel seguire le variazioni della domanda?

La domanda in contrazione. La domanda di energia elettrica in Europa è scesa di circa il 2,5% tra il 2007 e il 2012; in Italia tale riduzione è stata addirittura del 6,7% tra il 2007 e il 2013. In parte è la congiuntura di crisi economica, ma in parte la riduzione è strutturale, legata a un cambio delle attività economiche e a una sostituzione tecnologica assai accelerata. Si pensi a titolo di esempio ai consumi di casa propria, con elettrodomestici sempre più efficienti: un frigo di oggi consuma forse metà di uno di quindici anni fa, l’illuminazione incide per un quarto di quanto incidesse dieci anni fa, e cosi via; è vero che abbiamo aumentato la presenza di apparecchi energivori, ma è un dato di fatto che l’effetto netto di questi cambiamenti, soprattutto nel mondo produttivo, è una riduzione significativa dell’intensità energetica dell’economia.

E attenzione, perché la riduzione dei consumi si ripercuote in modo amplificato sull’attività delle imprese: si riduce il numero di ore di utilizzo degli impianti di produzione, con conseguente difficoltà a recuperarne i costi di costruzione, si riducono i flussi sulle reti, con una conseguente riduzione degli introiti per l’attività di distribuzione. E, ultimamente, non solo scende la domanda, ma cresce anche la quota dei consumatori morosi che, pur consumando, non pagano, con impatti pesanti sui conti. 

La domanda rigida. Infine, l’avvento della tecnologia digitale sta rendendo possibile, con costi modesti, un controllo distribuito delle reti, l’aggregazione di produzioni e carichi, la gestione distribuita delle reti. Il coordinamento dei carichi non è più un monopolio naturale del gestore di rete, ma può essere pensato come un’attività di impresa.

I nuovi investimenti. Molta attività delle imprese di servizio pubblico locale è stata legata in passato alla costruzione delle infrastrutture di rete e alla connessione di nuovi clienti; i grandi progetti di investimento erano quelli che le utility europee sapevano fare meglio. Oggi questo ruolo è divenuto marginale e molte imprese si trovano con competenze elevate, ma non necessarie, difficilmente convertibili nella fornitura dei nuovi servizi di cui il settore ha bisogno. 

Il venire meno di queste caratteristiche economiche dell’industria mette in discussione la ragione stessa dell’esistenza delle imprese che storicamente hanno gestito il servizio e impone loro un cambio radicale del modello di business, progressivamente reso obsoleto dalle innovazioni tecnologiche. I consumatori, grazie alla liberalizzazione della vendita e alla diffusione della produzione su piccola scala, sono sempre più indipendenti nel proprio fabbisogno e chiedono alla rete servizi diversi da quelli del passato, quali la riserva, la regolazione della qualità del servizio, l’interconnessione tra produzioni e carichi. Si pensi che già oggi in Italia vi sono oltre mezzo milione di produttori a fronte di 37 milioni di utenze di consumo: i clienti non possono più essere pensati come soggetti passivi a cui le utility cedono energia, ma interlocutori con cui interfacciarsi nel dare e ricevere servizi. E per i distributori elettrici questo è un mestiere diverso da quello che facevano in passato. 

Un adeguamento lento del modello di business mette in pericolo il ruolo sociale e l’immagine delle utility, che non di rado sono identificate dal grande pubblico come campioni di un modello economico di monopolio orientato all’utente, non al cliente. Chiaro che la riduzione dei costi di tecnologie come il fotovoltaico rende accessibili modi nuovi di approvvigionarsi, molto più vicini ai consumatori e più coerenti con le loro aspirazioni di democrazia e di partecipazione e favorisce la presenza di una molteplicità di operatori, che è certamente positiva per spingere l’innovazione e accelerare la transizione verso un modello organizzativo centrato sui bisogni dei consumatori e non su quelli delle imprese fornitrici. In questo possono giocare un ruolo centrale i regolatori, chiamati a interpretare l’evoluzione delle tecnologie e a compiere scelte tutt’altro che scontate per non ostacolare il rinnovamento.

Utility in crisi

L’inadeguatezza attuale delle imprese di pubblica utilità è stata colta con tempestività dal mercato finanziario. Dal 2008 a oggi le dieci maggiori utility elettriche europee hanno perduto oltre metà del loro valore, minacciate dalle nuove frontiere di gestione tecnica del servizio, dalla deregolamentazione che ha tolto loro i sicuri monopoli tanto apprezzati in passato dagli investitori istituzionali (tutti i fondi pensione avevano un blocco stabile di utility nel portafoglio!), dalle stringenti norme ambientali, che hanno reso alcuni degli impianti di produzione esistenti dei sopravvissuti di un’epoca finita per sempre, dall’effetto di riduzione dei prezzi sul mercato elettrico causato dalla penetrazione crescente delle rinnovabili a costo marginale nullo (i prezzi sulle Borse elettriche europee nel 2013 hanno raggiunto il minimo da 8 anni a questa parte). 

E non sembra che le aspettative future del mondo della finanza siano rosee: il rating finanziario di tutte le utility europee è sceso tra il 2007 e il 2014. Enel, per esempio, nel ranking di S&P è scesa da A+ nel 2007 a BBB nel gennaio 2014; anche Eni è scesa da AA ad A (3 livelli in meno), ma conserva un rating maggiore.

Quello che per molti versi è sorprendente è che nonostante vi siano, chiari, tutti questi segni di cambiamento, nell’ultimo decennio le imprese elettriche europee hanno installato ancora 85 GW di nuova capacità alimentata da combustibili fossili, tenendo posizioni assai difensive sul fronte delle nuove fonti rinnovabili e degli impianti distribuiti presso i consumatori. In Germania le quattro maggiori imprese producono circa il 70% dell’energia consumata, ma hanno solo meno del 6% della potenza eolica e solare installata. E così pure nel resto d’Europa: le utility nell’ultimo decennio hanno privilegiato il presidio del business tradizionale rispetto alla diversificazione nei nuovi servizi.

Un esempio su tutti: nella corsa all’oro del fotovoltaico italiano del 2010- 2011, le uniche a non averne approfittato sembrano essere proprio le utility, fatta eccezione per il ruolo preminente, e dubbio, di Terna. Ma tutte le imprese ex municipali hanno avuto comportamenti a dir poco prudenti, nonostante i ritorni nelle nuove attività dei mercati per l’ambiente siano maggiori di quelli delle loro attività tradizionali. Non possiamo comunque ignorare che la conversione del modello di sviluppo è anche dolorosa: non c’è dubbio che l’efficienza energetica eroda quote di mercato ai distributori e non è scontato che essi riescano a trarre dai contratti ESCo una redditività maggiore che dalla vendita di kWh e gas.

Energia e Tlc

In fin dei conti si tratta di un deja vu: la trasformazione appena avviata nel settore dell’energia ricalca quella percorsa negli anni ’90 nel settore delle telecomunicazioni, con il passaggio al digitale e alla tecnologia mobile, che fanno del settore di oggi qualcosa di totalmente diverso da quello di vent’anni fa. Così è ragionevole attendersi che tra dieci anni riconosceremo a fatica il settore dell’energia di oggi: diversi tipi di contratti, diverso modo di far pagare il servizio, diverso modo di comunicare, di aggregare i consumatori, di produrre e di consumare; non più clienti passivi, ma protagonisti di una relazione dinamica con il proprio fornitore, che sempre più conterà sui carichi dei consumatori per regolare i profili complessivi di carico e i flussi sulle reti. È lecito chiedersi se nel settore dell’energia queste innovazioni saranno portate dalle imprese tradizionali oppure da nuovi entranti. Nelle telecomunicazioni i soggetti sono cambiati: skype, whatsapp, viber e cosi via, che dieci anni fa non conoscevamo, oggi ci sono familiari e hanno preso la fetta maggiore delle nuove opzioni tecnologiche disponibili.

È lecito chiederci da chi e come compreremo l’energia elettrica in futuro. Nei nuovi servizi non ci sono rendite acquisite e chi saprà essere più tempestivo conquisterà un ruolo prevalente nel mercato, siano essi gruppi d’acquisto, la grande distribuzione, le società di telecomunicazioni, gli aggregatori di carico. Quel che è certo è che s’ha da fare affidamento su modi nuovi di pensare il servizio, utilizzando accumuli, controllo in tempo reale della domanda, produzioni rinnovabili, cogenerazioni, confezionando un prodotto assai diverso dal kWh nudo e crudo. Il valore va creato altrove, nell’innovazione del servizio. Perché il nostro fornitore di energia non ci mette a disposizione un’applicazione per i telefoni in cui poter vedere, confrontare, monitorare i nostri consumi? Perché non possiamo modificare le condizioni contrattuali direttamente da un sito, in cui poter acquistare una quota desiderata di energia rinnovabile? Perché non ci sono ancora contratti che prevedono un controllo della domanda?

Dispiace inoltre constatare come le maggiori utility europee si siano un po’ arroccate nel sostegno del proprio ruolo storico, difendendo un modello di business che scricchiola in modo evidente e sembra tenere in scarsa considerazione le nuove opportunità che si potrebbero aprire per i consumatori. Esse hanno assunto così una posizione critica verso tutte le innovazioni regolatorie che possono favorire il rinnovamento dei servizi, criticano la politica di incentivo alle fonti rinnovabili, sostengono la remunerazione dei costi fissi degli impianti termoelettrici, ostacolano l’apertura del mercato “sul posto” con la facilitazione degli scambi commerciali tra soggetti fisicamente vicini. È chiaro che sono temi che minano alle fondamenta l’organizzazione del settore, ma è anche vero che non possiamo sottrarci dal dare nuove regole, più consone alle opportunità tecnologiche, senza forzare alla rinuncia all’innovazione. Che la produzione intermittente mal si concili con i mercati elettrici esistenti è un dato di fatto, ma che si debba abbandonare il ricorso alle fonti intermittenti per questa ragione è una deduzione errata e controproducente.

La risposta è nell’adottare soluzioni nuove, diverse, sia sul piano tecnologico (si pensi all’integrazione delle previsioni a breve termine di irraggiamento e ventosità nei modelli di previsione di domanda), sia su quello delle regole (nel caso d’esempio, l’accorciamento del “gate closure” del mercato del giorno prima per tenere miglior conto delle produzioni intermittenti). L’occasione di rendere le reti veramente intelligenti, come auspicato nello slogan un po’ abusato delle smart grid, sarà la prima prova su cui si misura la sopravvivenza delle imprese.

Si può dire insomma che non c’è più spazio per le utility come le abbiamo conosciute, perché la nostra economia e i consumatori chiedono servizi diversi; certamente esse sono nella posizione di poter adeguare la propria offerta ai nuovi bisogni, indirizzando lo sguardo a un orizzonte temporale lungo a sufficienza per remunerare gli investimenti in nuovi servizi. La capacità di far crescere nuovi soggetti competitivi è però responsabilità di tutti, imprese, amministrazione, regolatori, mondo della ricerca: abbiamo le competenze tecniche per per spingere il settore a una maggiore sostenibilità, contendibilità ed efficienza, non conciliarle con nuove regole adeguate sarebbe un’occasione perduta davvero.

Articolo pubblicato sulla rivista bimestrale ‘QualEnergia’ nel numero aprile-maggio 2014.

ADV
×