Un mezzo di trasporto a gasolio fa meno male al clima di uno a metano?

Due nuovi studi confermano come si sia finora sottostimato il problema delle fughe in atmosfera di gas nelle fasi di estrazione e trasporto. Con un potere climalterante 33 volte superiore a quello della CO2, se si tiene conto delle perdite in atmosfera, il metano, specie quella da scisti, potrebbe non essere migliore per il clima rispetto ad altri combustibili.

ADV
image_pdfimage_print

Se guardiamo solo al processo di combustione, il gas è indubbiamente la fonte fossile con meno emissioni climalternati: una centrale a gas emette circa la metà della CO2 rispetto a una a carbone e un’auto a metano produce gas serra e altre emissioni nocive in misura molto minore di una a gasolio. Se si guarda però all’intero ciclo di vita emerge un aspetto che ridimensiona di molto i vantaggi del gas: quello delle fughe in atmosfera nell’estrazione e nel trasporto.

Il metano, infatti, ha un potere climalterante decine di volte superiore a quello della CO2, anche se ha un tempo di permanenza in atmosfera pari a un decimo di questa. Per l’esattezza, secondo studi recenti, ha un effetto sul riscaldamento globale di 33 volte superiore a quello della CO2 sui 100 anni e 105 volte maggiore sui 20 anni.

Due nuovi studi portano nuovi elementi a conferma di come la questione delle fughe di gas sia stata finora ampiamente sottostimata. In uno, pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences, si mostra come da alcuni pozzi per l’estrazione di shale-gas negli Usa derivano emissioni di metano in atmosfera da 100 a 1000 volte più consistenti di quanto ipotizzato finora dall’EPA, l’agenzia governativa Usa per la protezione ambientale.

In un secondo report, pubblicato a metà febbraio su Science, si fa una revisione della letteratura scientifica, concludendo che il volume delle perdite di gas da pozzi e infrastrutture è molto più alto rispetto alle stime EPA, fino ad arrivare a dire che, se si tiene conto di queste emissioni in atmosfera, guidare un veicolo a gas è peggio per il clima che girare con un’auto diesel.

Il primo lavoro citato – “Toward a better understanding and quantification of methane emissions from shale-gas development” – si basa su rilevazioni aeree compiute sopra alcuni pozzi per l’estrazione di shale-gas in Pennsylvania. Laddove l’EPA stimava ci dovessero essere emissioni comprese tra 0,04 e 0,30 grammi di metano al secondo è stato rilevato un valore medio di 34 grammi al secondo. Il motivo della discrepanza tra i dati rilevati e quelli stimati dall’EPA lo si trova nell’altro studio, quello pubblicato a metà febbraio su Science (“Methane Leakage from North American Natural Gas Systems”), che sintetizza circa 200 lavori scientifici sul tema.

La metodologia standard per quantificare le emissioni di gas in atmosfera, usata anche dall’EPA – si spiega – è quella di moltiplicare un valore stimato di emissioni per il numero di fonti. Cioè, si stima che un pozzo emetta x, che un impianto di raffinazione emetta y e si moltiplica x per il numero di pozzi e y per il numero di raffinerie. Una metodologia che evidentemente ha qualcosa che non va, dato che invece gli studi condotti per rilevare le emissioni in atmosfera per gli Usa riscontrano valori più alti dal 25 al 75% di quelli della stima EPA.

Per capire come ciò sia possibile, va ricordato che l’EPA nel suo conteggio non considera né le fonti naturali di emissioni di metano né altre come i pozzi abbandonati. Ma il metodo EPA, segnala lo studio, ha anche un’altra debolezza: nel quantificare le emissioni delle singole fonti si basa sulla partecipazione volontaria degli operatori, con relativo possibile effetto di “cherry-picking”; in poche parole questi addetti permetterebbero le rilevazioni solo sugli impianti più virtuosi.

La conclusione dello studio è che le perdite dell’industria del gas sono molto più alte di quanto stimato finora e questo rimette in discussione la validità di questo combustibile nel processo di decarbonizzazione. Se nel campo della produzione elettrica il gas resta di gran lunga preferibile al carbone (per estrarre il quale tra l’altro si rilascia spesso anche metano), come carburante per i trasporti, per essere preferibile al gasolio, il gas dovrebbe avere nel suo ciclo di vita un volume di fughe in atmosfera minore di quello stimato dall’EPA. Come abbiamo visto però le perdite sono molto maggiori.

Insomma, se vogliamo usare il gas come fonte di transizione verso un mondo al 100% a rinnovabili bisogna intervenire con urgenza per arginare il problema delle fughe. Se le perdite nei gasdotti possono, entro un certo limite, essere ‘tappate’ con relativa facilità, più difficile è intervenire su quelle in fase di estrazione. Da questo punto di vista nei pozzi di shale-gas in Pennsylvania si sono rilevate emissioni molto alte soprattutto nella fase di trivellazione, mentre finora gli esperti pensavano che le fughe di gas avvenissero più che altro nelle fasi di estrazione e trasporto.

Questo è un altro buon motivo per dubitare della sostenibilità ambientale dello shale-gas. Ricerche recenti (citate in un report WRI) condotte attorno a pozzi di shale-gas attivi in Colorado hanno mostrato che nel processo di estrazione tramite fracking circa il 4% del gas finisce in atmosfera. Anche se gran parte della letteratura scientifica in materia stima che le emissioni dello shale-gas siano paragonabili a quelle del gas convenzionale, questi dati potrebbero confermare quanto sostenuto da uno studio del 2011 della Cornell University: l’impronta dello shale-gas in termini di emissioni su un periodo di 20 anni sia dal 22 al 43% più elevata di quella del gas convenzionale, mentre sui 100 anni – per via della permanenza relativamente breve del metano in atmosfera – sia maggiore dal 14 al 19%.

Se così fosse lo shale-gas per il clima non sarebbe migliore di petrolio e carbone: rispetto al petrolio, sui 20 anni, l’impatto sarebbe dal 50% a 2,5 volte più pesante e sui 100 anni da equivalente a peggiore del 35%. Rispetto al carbone, invece, sul periodo dei 20 anni, avrebbe un’impronta climatica dal 20% a oltre il doppio più alta, mentre sui 100 anni l’impatto sul clima sarebbe sostanzialmente simile.

ADV
×