Cresce lo shale gas negli Stati Uniti, ma nessun effetto sulle emissioni globali

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L'uso di più shale gas negli Stati Uniti non vuol dire meno carbone e meno CO2 in atmosfera. L'eccedenza di carbone Usa e il suo forte export hanno abbassato il prezzo internazionale agevolandone il maggior uso all'estero. Spostare la localizzazione delle sorgenti di emissione di CO2 è irrilevante per il contrasto ai cambiamenti climatici.

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L’ingresso dello shale gas nel quadro energetico statunitense è stato salutato con giubilo dagli assertori delle fonti fossili. Gli effetti economici sono stati rilevanti. E’ stata in poco tempo ridotta la dipendenza USA dalle importazioni di gas e petrolio (anche se nel 2012 gli Usa importavano ancora il 40% del greggio usato, ndr). Questa rapida inversione di tendenza, per alcuni versi inaspettata, ha anche avuto notevoli ripercussioni politiche, alimentando, perfino in ambiti molto vicini alla presidenza Obama, un dibattito acceso sull’opportunità geopolitica e strategica di riaprire la nazione alle esportazioni di idrocarburi, bandite a seguito della prima crisi petrolifera degli anni Settanta (Energy Rush: Shale Production and U.S. National Security, CNAS). L’incremento della produzione di gas da shale ha inoltre indubbiamente favorito la riduzione del prezzo del gas al consumo avvantaggiando l’industria manifatturiera nella competizione sui mercati internazionali.

Cosa dire però di un altro presunto risultato, la riduzione delle emissioni in atmosfera, attribuito al conseguente maggior consumo di gas naturale a discapito del ‘più inquinante’ carbone e annoverato tra gli obiettivi raggiunti dagli USA in campo ambientale. Semplicemente che non è corretto appuntarsi una medaglia per un traguardo non conseguito. Se le premesse, i fatti e le circostanze sono ben posti la storia allora cambia.

Dal 2007 al 2012 il consumo annuo di carbone degli Stati Uniti è in effetti crollato, da 1128 a 889 milioni di short ton (1 short ton, sh t, equivale a 907,2 kg) con una diminuzione del 21,2% (-238 sh t). Il decremento è sostanzialmente attribuibile al mutamento avvenuto nel sistema di produzione di energia elettrica, che ha vissuto uno spostamento di alimentazione in fonte primaria dal carbone al gas naturale. In questo settore i consumi di carbone sono scesi da 1045 Msh t (2007) a 824 Msh t (2012), coprendo con un calo di 221 sh t quasi interamente il deficit complessivo.

Il prezzo basso del gas prodotto con il fracking dai depositi shale gas e i nuovi e più stringenti limiti dell’EPA (Environmental Protection Agency) sull’inquinamento atmosferico hanno penalizzato la costruzione di nuove centrali a carbone a favore di quelle a gas. Poiché il gas naturale è caratterizzato da fattori di emissione di CO2 per unità di elettricità prodotta inferiori al carbone in un intervallo che va tra il 44 e il 60%, si tende ad attribuire a questa transizione il merito della riduzione delle emissioni USA in atmosfera: 9% in meno nel 2011 rispetto al 2007 nei consumi energetici, circa 500 Mt di CO2.

Un eccellente risultato? La conclusione è parziale e fuorviante in quanto non tiene in considerazione la sorte del carbone non utilizzato nelle centrali elettriche né la circostanza che l’aumento della concentrazione di CO2 atmosferica causa del global warming non si combatte nei confini nazionali.

Buona parte del carbone americano in precedenza destinato ai consumi elettrici prende la via dell’esportazione e contribuisce a sostenere le emissioni globali di CO2. L’eccedenza statunitense ha indotto l’abbassamento del prezzo internazionale del carbone agevolandone l’uso all’estero. Per esempio nel Regno Unito, dove nel 2012 se ne è verificato un aumento del 30% per generare elettricità, a causa anche dei concomitanti prezzi alti del gas e prezzi bassi dei titoli di carbonio. Le esportazioni USA di carbone, dal 2007 al 2012, hanno seguito un andamento che ha compensato la riduzione dei consumi interni e sono passate da 59 a 126 Msh t con un incremento di 67 Msh t.

Considerando che la combustione di una short ton di carbone produce circa 2,9 tonnellate di CO2, si può stimare in 194 Mt il contributo fornito all’incremento della CO2 atmosferica dal carbone USA esportato all’estero.

Emerge pertanto un dato che smentisce sostanzialmente la tesi del ruolo ‘decarbonizzante’ dello shale gas nel comparto economico e industriale statunitense. Circa il 39% della dichiarata riduzione USA delle emissioni in atmosfera è stato semplicemente trasferito all’estero, senza che ne sia stato annullato il potenziale climalterante. Spostare la localizzazione delle sorgenti di emissione di CO2 è irrilevante per il contrasto ai cambiamenti climatici. L’unica soluzione è che le fonti fossili a maggior impatto rimangano nel sottosuolo.

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