Competitività industria europea: il costo dell’energia non dice tutto

Le politiche su clima ed energia non minano affatto la competitività europea. Al contrario, alzare l'asticella degli obiettivi su rinnovabili, emissioni ed efficienza energetica sarebbe una mossa strategica per la nostra economia in crisi. L'UE non può puntare sull'energia a basso costo: deve scommettere su risparmio e innovazione.

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Le politiche su clima ed energia non minano la competitività europea. Al contrario: il vecchio continente, non potendo competere sui bassi costi dell’energia, avrebbe tutto l’interesse a spingere ancora di più su innovazione verde, efficienza energetica e rinnovabili. Invece, concentrati come sono sulle politiche di bilancio per fronteggiare la crisi, i Paesi della Zona Euro rischiano di perdere il treno della green economy, facendosi soffiare la leadership da concorrenti agguerriti come Cina, India e Stati Uniti.

È questo in estrema sintesi quel che emerge da un report del centro studi Climate Strategies, realizzato con la partecipazione di ricercatori del Diw Berlin tedesco, dell’Iddri francese e della London School of Economics and Political Science (Lse) britannica (vedi in fondo).

È falso, chiarisce innanzitutto lo studio, che le politiche europee su emissioni e rinnovabili e il relativo impatto sui costi dell’energia siano un fattore frenante per l’economia comunitaria. Ad esempio, in Germania, tra i paesi con la bolletta più salata (anche se lì molte aziende, a differenza che in Italia, sono tutelate da questo punto di vista), per il 92% delle industrie i costi per l’energia rappresentano in media non più dell’1,6% del fatturato. La percentuale di Pil che l’Europa spende in energia – si legge – non è significativamente superiore a quella di concorrenti come gli Usa. Che si possa essere competitivi anche pagando l’energia cara, d’altra parte lo dimostra il fatto che il World Economic Forum nello stilare la sua classifica annuale della competitività dei vari Paesi, non considera il prezzo dell’energia ma solo la qualità delle forniture di elettricità, che peraltro pesa sul voto complessivo per appena l’1%. Non è un caso che nelle prime cinque posizioni della classifica 2013 figurino tre Paesi europei con alti costi dell’energia: Svizzera, Finlandia e Germania.

Detto questo, è ovviamente innegabile che la bolletta sia un fattore critico per gli energivori, cioè quell’8% delle industrie europee che spende più del 6% del fatturato in energia. Questi comparti – sottolinea lo studio – in Europa sono tutelati e devono continuare ad esserlo. Tuttavia, si osserva, le differenze nel costo dell’elettricità tra Europa e concorrenti non sono dovute tanto alle politiche per il clima, quanto all’accesso alle risorse, dato che l’Europa dipende in larga parte dall’import, e dunque possono rivelarsi difficili da neutralizzare. L’UE non vincerà mai la gara da questo punto di vista, l’unico modo per farcela è puntare su innovazione ed efficienza energetica.

Di necessità bisogna fare virtù: come si vede nel grafico sotto, i Paesi con il costo dell’energia più alto sono anche quelli che hanno le migliori prestazioni in termini di intensità energetica, cioè di rapporto tra consumi energetici e Pil. E questa è la strada sulla quale continuare.

L’Europa invece – concentrata com’è sulle politiche di bilancio – sta perdendo terreno prezioso proprio nella corsa alle tecnologie low-carbon. Non è più all’avanguardia, mentre il resto del mondo recupera velocemente: target per le rinnovabili esistono ormai in 138 Paesi, 66 dei quali hanno introdotto incentivi sul modello della feed-in tariff e mercati della CO2 sono attivi o stanno per essere varati diverse potenze mondiali, tra cui la Cina.

Nel 2012 il 70% della potenza eolica e il 40% di quella fotovoltaica è stata installata fuori dall’Unione. Anche sul fronte dei veicoli elettrici, il resto del mondo si sta muovendo molto più velocemente: in nessun paese europeo le auto ibride o completamente elettriche si stanno diffondendo rapidamente quanto negli Usa (circa 52mila nuovi veicoli immatricolati nel 2012) o in Giappone (16 mila immatricolazioni nel 2012).

Anche per quanto concerne l’innovazione nei settori della green economy (grafico sotto) l’Europa resta indietro. Un Paese come il Giappone, che ha circa 5 volte meno abitanti rispetto all’Unione, produce molti più brevetti e, considerando le proporzioni, anche Corea del Sud e Stati Uniti innovano molto più di noi europei.

Visto che nella classifica del WEF sulla competitività dei Paesi il tasso di innovazione pesa per il 15% contro l’1% della qualità delle infrastrutture elettriche, ci piacerebbe sentire dal mondo industriale più appelli per politiche che promuovano la ricerca nell’energia pulita e meno anatemi contro il peso in bolletta delle rinnovabili.

Quello che ci spiega questo report, infatti, è che il punto di forza dell’UE non può che essere quello di usare bene la poca energia di cui dispone, magari producendola internamente, con fonti pulite e che creino lavoro. E che dunque alzare l’asticella degli obiettivi su rinnovabili, emissioni ed efficienza energetica sarebbe una mossa strategica per la nostra economia in questa fase di crisi strutturale.

Il report

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