Bolla del carbonio. Da Bloomberg uno strumento per valutare il rischio

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Dalla settimana scorsa è a disposizione di analisti e traders uno strumento Bloomberg per valutare il rischio finanziario legato alle riserve fossili che la transizione energetica costringerà a lasciare sotto terra. Se le compagnie oil & gas procedono quasi come nulla fosse, la finanza è ormai pienamente consapevole del rischio della bolla della CO2.

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Dalla settimana scorsa è a disposizione di 300mila analisti e trader uno strumento di Bloomberg per valutare il rischio finanziario che deriva dai cosiddetti stranded asset causati dall’unburnable carbon, cioè da quegli asset che si svuotano di valore perché costruiti su riserve di combustibili fossili che non potranno essere sfruttate. La preoccupazione per la cosiddetta bolla della CO2 o bolla del carbonio, sollevata inizialmente da associazioni ambientaliste e gruppi di investitori consapevoli, da tempo è concreta anche nella finanza mainstream e il varo del Carbon Risk Valuation Tool di Bloomberg ne è l’ultima conferma.

Gli impegni di riduzione dei gas serra presi per tentare di frenare il global warming, assieme al calo della domanda e ai costi sempre più alti per sfruttare certi giacimenti – è il nocciolo della questione – comporteranno che gran parte delle riserve di gas, petrolio e carbone dovranno essere lasciate sotto terra e non potranno essere valorizzate, con evidenti ricadute negative sui bilanci e sulle azioni delle compagnie che le possiedono. Per riassumere con due dati: la IEA valuta che per raggiungere l’obiettivo dei 2 °C di riscaldamento massimo, non si potrà bruciare più di un terzo delle riserve provate, in questo scenario, mostrano le stime del gruppo bancario HSBC, il valore di gran parte delle aziende del settore oil & gas crollerebbe del 40-60%.

Il nuovo strumento di Bloomberg permette appunto agli investitori di misurare la vulnerabilità di una compagnia o di un gruppo in base a scenari con diversi prezzi di gas, petrolio e carbone. Prezzi che riflettono diverse ipotesi, oltre che su domanda e offerta, sulle politiche per il contenimento delle emissioni che le condizioneranno. A partire dalle informazioni che Bloomberg ha sulle varie compagnie e sul tipo di riserve di cui dispongono, il Carbon Risk Valuation Tool mostra come cambierebbe il valore delle loro azioni in base a diverse ipotesi di calo del prezzo del petrolio e di impatto sui profitti delle politiche per ridurre la CO2.

Come si vede a colpo d’occhio nel grafico sotto, che illustra 5 scenari preconfezionati da Bloomberg, tutte le compagnie stanno correndo un grosso rischio: in nessuna delle ipotesi il valore delle azioni cresce; nel caso che le politiche per frenare il global warming fossero attuate per tempo (“Prompt Decarbonization”) vediamo crolli anche del 40%, mentre se per altri fattori associati il prezzo del barile crollasse in misura maggiore, il valore delle azioni di certe compagnie potrebbe ridursi di anche di oltre l’80% (per maggiori dettagli si veda questo documento che spiega il funzionamento dello strumento, pdf).

Il Carbon Risk Valuation Tool – per accedere al quale gli investitori pagano circa 20mila dollari all’anno – per ora è in versione beta e, come ammette lo stesso ideatore, Curtis Ravenel di Bloomberg, “non è qualcosa su cui baserei decisioni di investimento”: troppe sono infatti le informazioni sensibili sulle loro riserve che le compagnie non diffondono. Migliorerà probabilmente nel tempo, ma quel che ci importa è che ha portato ufficialmente il problema della bolla della CO2 nel mondo della finanza mainstream.

Un elemento positivo, visto che l’approccio dei grandi dell’oil & gas – almeno quello comunicato all’esterno – sembra essere di procedere con il business as usual, confortati dalle previsioni di crescita della domanda da fossili e confidando nello stallo delle politiche mondiali di riduzione delle emissioni. Nel 2012, mostra un report dell’ong Carbon Tracker Initiative, le 200 aziende più grandi hanno investito 674 miliardi di dollari in nuove riserve.

I grandi delle fossili stanno però probabilmente facendo un errore di valutazione e sono diversi gli elementi che fanno pensare che quei combustibili fossili potrebbero essere destinati a rimanere sotto terra, con un conseguente buco nell’acqua a livello economico. L’ultimo report sull’argomento della Generation Foundation, legata al fondo Generation Investment Management (qui in pdf), ad esempio, avverte che i rischi per gli asset fossili non vengono solo da un accordo internazionale sul clima, ma anche da politiche locali di riduzione delle emissioni, norme anti-inquinamento, limiti all’uso delle risorse idriche, movimenti ambientalisti, campagne di politiche disinvestimento (si veda qui), target di efficienza energetica e competizione sempre più forte da parte delle fonti pulite.

Insomma: chi continua ad investire in fossili rischia di rimanere travolto dalla transizione energetica. In molti lo hanno capito e il nuovo strumento di valutazione del rischio di Bloomberg promette di portare nuova consapevolezza.

Affrontare il problema e disintossicare per tempo anche la finanza dalle fonti sporche, infatti, è fondamentale per evitare il rischio di trovarci tra le mani, oltre alla bomba climatica una bomba finanziaria. La capitalizzazione legata alle risorse fossili al momento ha infatti un ruolo molto importante su diverse Borse (20-30% in Borse come quella australiana, Londra, Mosca, Toronto e San Paolo) e nelle fonti fossili hanno investito e continuano ad investire moltissimo Stati, enti locali e grandi fondi pensione. Se gli asset legati a gas, petrolio e carbone crollassero come da simulazioni Bloomberg, il colpo per l’economia mondiale potrebbe essere disastroso.

 

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