Decreto Fare2: quei soldi dalle bollette per finanziare il carbone cosiddetto “pulito”

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Nella bozza del decreto Fare2 aiuti per oltre 1,2 miliardi di euro per costruire nel Sulcis una centrale a carbone dotata di sistema CCS. Si prelevano risorse da quelle bollette che si vorrebbero ridurre per investire in una tecnologia controversa e poco applicabile al sistema energetico italiano. Cerchiamo di capire meglio le ragioni di questa scelta.

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Già il titolo dell’articolo 2 delle bozze del decreto Fare 2 fa alzare il sopracciglio: “Norme per lo sviluppo di tecnologie a carbone pulito”. Carbone pulito? Cos’è, un ossimoro? La perplessità cresce leggendo che si vuole finanziare, aggiungendo un’altra voce alle tanti addizionali che gravano in bolletta, una centrale a carbone nel Sulcis, in Sardegna. L’impianto in questione verrebbe premiato con 30 euro (rivalutati annualmente) per ogni MWh che produrrà, per venti anni e fino a un massimo di 2100 GWh annui: quindi 60 milioni annui di incentivi, per un totale di 1,2 miliardi nell’intero periodo.

Condizione per ottenere l’incentivo è che la centrale a carbone sia dotata di un sistema che separi la CO2 dai fumi della combustione e la immagazzini nel sottosuolo, la cosiddetta CCS, che sta per carbon capture and storage. In attesa della centrale e dei suoi costosissimi MWh, è stata già approvata la spesa di altri 60 milioni di euro in 10 anni per ricerca e sviluppo delle tecnologie CCS, sempre presi dal bancomat-bolletta.

Tutto ciò è alquanto sorprendente: sono mesi che il ministro dello Sviluppo economico, Flavio Zanonato, afferma di voler ridurre il costo dell’energia elettrica … e ora si scopre che vuole aggiungere altri 60 milioni di euro annui di addizionali in bolletta. Inoltre la tecnologia su cui vuole investire è alquanto controversa, sia per i costi che comporta, sia per la sua efficacia e sicurezza: chi garantisce che la CO2 pompata nel sottosuolo resti lì per almeno qualche secolo?

Una soluzione tanto controversa che dopo decenni durante i quali la CCS è stata presentata come la via per bruciare senza danni climatici i combustibili fossili, nel mondo di impianti di questo tipo ce ne sono solo 12 (di cui uno risalente al 1972) e 8 sono in costruzione, per una cattura annuale di una cinquantina di milioni di tonnellate di CO2. Visto che ogni anno le attività umane rilasciano quasi 35 miliardi di tonnellate di CO2 e il solo aumento di emissioni di CO2 fra 2011 e 2012 è stato di circa 400 milioni di tonnellate, sembra che prima che il contributo di queste tecnologie faccia una minima differenza per il clima, farà in tempo a finire il carbone.

Forse anche per queste ragioni il totale dei progetti di impianti con cattura di CO2 futuri è sceso dai 72 del 2012 ai 65 di quest’anno, a causa di varie cancellazioni, come segnalato nel report 2013 dell’associazione mondiale per la CCS (qui in pdf).

Perché dunque l’Italia, che pure di carbone ha solo quello scarso e pieno di zolfo del Sulcis, ha deciso di finanziare questa tecnologia? Lo abbiamo chiesto all’ingegnere dell’Enea, Giuseppe Girardi, vicepresidente della Società Sotacarbo, di proprietà Enea-Regione Sardegna, che da anni studia queste tematiche e che gestirà il nuovo progetto.

Ingegner Girardi, come si è arrivati a questa decisione? «Il primo passo è stato il protocollo di intesa firmato ad agosto fra Regione Sardegna e Ministero dello Sviluppo Economico, che prevede la realizzazione nel Sulcis di un polo tecnologico finanziato con 3 milioni l’anno per 10 anni per attività di ricerca sul CCS, e 30 milioni per la realizzazione, entro tre anni, di un ‘pilota’ da 48 MW termici, basato su un nuovo sistema di combustione del carbone e con cattura della CO2, seguito poi da una centrale a carbone con CCS».

La fase di cattura della CO2 è la più complessa e costosa del processo. Come si pensa di farla al Sulcis? «Per catturare la CO2, si possono adottare tre diverse tecnologie – ci spiega Girardi – si può agire prima della combustione, gassificando il carbone e producendo così un gas di sintesi composto essenzialmente da idrogeno e CO2, da cui separare quest’ultima. Il procedimento è però complesso e costoso. Oppure si può separare la CO2 dopo la combustione del carbone con aria, come nelle centrali attuali, trattando poi i fumi, composti per il 70% da azoto, con sistemi chimici, anch’essi costosi. Oppure, ed è questa la strada che intendiamo percorrere in Sardegna, si può bruciare il carbone con ossigeno puro, ottenendo fumi composti sostanzialmente da sola CO2. Puntiamo su questa soluzione perché esiste già una tecnologia tutta italiana di ossicombustione del carbone ad alta pressione, che ha dato ottimi risultati, con efficienza elevata e basso inquinamento. L’ossigeno lo otterremo dalla liquefazione dell’aria, impiegando parte dell’energia prodotta dalla centrale, ma studieremo anche nuove tecnologie per separalo tramite membrane».

E dove si pensa di stoccare questa CO2? «Avremo modo di provare nel Sulcis lo stoccaggio nei due tipi di strutture geologiche più indicate: le vene di carbone e le falde acquifere saline a una profondità di 800-1000 metri. Verificheremo per entrambe le soluzioni le potenzialità di stoccaggio e gli aspetti di sicurezza. Se la sperimentazione andrà come speriamo, dopo il 2016 dovremmo cominciare a costruire una centrale a carbone da 300 MW circa, dotata di sistema CCS».

Ma che senso ha finanziare una tecnologia così controversa e di scarso interesse per l’Italia? «Non ritengo che il carbone sia una fonte adatta all’Italia – precisa l’ingegnere – ma questo progetto non serve per mettere a punto tecnologie da usare da noi, se non per, in futuro, utilizzarle su centrali a gas o industrie che emettono molta CO2, come i cementifici. Il nostro progetto serve a far partire una filiera industriale di costruzione di centrali a carbone con CCS, da esportare nei tanti paesi del mondo, a partire da Cina e India, che ancora ricavano gran parte della propria elettricità da questa fonte».

Ma l’unica ragione per cui il mondo continua a usare il carbone è che costa poco – osserviamo – se ci si aggiunge la CCS, va fuori mercato… «Oggi – ribatte Girardi – l’energia da carbone costa poco, ma con gli obblighi che verranno probabilmente assunti nel mondo per il contenimento dei cambiamenti climatici, emettere CO2 diverrà via via più costoso. In attesa che le fonti rinnovabili maturino e superino i loro attuali limiti, le enormi riserve di carbone esistenti dovranno comunque essere sfruttate per dare energia alla crescente popolazione mondiale: in questo quadro le tecnologie CCS saranno indispensabili per consentire una transizione sostenibile verso una società carbon free. E anche la stessa Europa, se vorrà conseguire i suoi ambiziosi obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 al 2050, dovrà utilizzare il CCS per ridurre le emissioni da termoelettrico e industrie ad alte emissioni. Insomma nascerà un enorme mercato per chi sarà in grado di offrire le migliori e più competitive soluzioni per catturare e stoccare la CO2».

Ma non sarà che le decine di milioni investiti in questo progetto, alla fine, servano solo a garantire un reddito ai 500 minatori del Sulcis? «E’ vero il contrario. Se avessimo voluto solo dare assistenza, non ci saremmo certo imbarcati in un progetto così complesso, che in un primo momento occuperà ben poche persone. La nostra intenzione è invece garantire sul medio e lungo termine un futuro industriale alle popolazioni del Sulcis, così da produrre ricchezza vera, non umilianti elemosine assistenziali».

Non resta che sperare che nel Sulcis nasca qualcosa di così innovativo e competitivo che cinesi o indiani non possano farselo da soli.

 

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