Quei dubbi sull’auto elettrica che non convincono

L’auto elettrica resta un ottimo affare: riduce la dipendenza energetica, migliora la qualità della vita nelle città e contiene le emissioni. E sul lungo termine farà risparmiare l’utilizzatore finale. Ma serve una cabina di regia. Un articolo di Pietro Menga, Presidente CIVES - Commissione Italiana Veicoli Elettrici Stradali del CEI.

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Volendo sintetizzare potremmo dire che l’auto elettrica è al nastro di partenza, ma il colpo dello starter è inceppato in canna. È al nastro di partenza perché gli ingredienti fondamentali ci sono apparentemente tutti: l’industria propone i veicoli su base di mercato, la dizione auto elettrica fa parte del lessico comune e non evoca più sensazioni marziane, in casa della politica se n’è parlato e i media non se ne sono dimenticati come succede per i temi fuori corso.

Cominciamo da questi ultimi, i media: nel solo ultimo anno è apparsa su giornali e web una nutrita serie di articoli con titoli del tipo: “Le elettriche aggravano il clima senza rinnovabili”, “Green cars have a little dirty secrets”, “The rebirth of diesel is giving a price problem to electric and hybrid”, “Auto elettrica: batterie pericolose per salute e ambiente”, e altro.

Una consistente fioritura di comunicazioni tese, del tutto lecitamente, a guardare a quelle che evidentemente appaiono come zone d’ombra da esplorare prima di abbracciare una strada nuova; o anche, almeno in parte, come piccoli segni di resistenza a un mutamento che, altrettanto legittimamente, può non essere gradito a tutti. L’insieme di questi dubbi o perplessità può essere sintetizzato in poche domande: ci saranno davvero le auto elettriche? Ce la possiamo permettere l’auto elettrica? Per convincere l’acquirente basta l’infrastruttura? Ma ambientalmente va davvero bene?

È naturale che, di fronte a questi dubbi, il Sindaco di una città o un qualunque decisore politico intenzionato a muovere passi su questa strada possa avere qualche esitazione. Proviamo allora a passarli in rassegna, almeno nelle linee essenziali.

Le auto elettriche ci saranno, e a breve, semplicemente perché l’industria dell’auto ha sottoscritto con l’Unione Europea il vincolo che nel 2020 il livello di emissioni medie di CO2 della loro produzione annua sia contenuto in 95 grammi/km, pena forti sanzioni. E poiché la ricerca del settore valuta che, mettendo assieme il meglio della tecnologia, l’obiettivo tecnicamente raggiungibile per l’intero parco si aggiri invece sui 103-104 grammi, per soddisfare il vincolo concordato occorrerà necessariamente porre in commercio una frazione di vetture elettriche a batteria, o di vetture ibride ricaricabili dalla rete elettrica (“plug-in” e “range extended”) in grado di operare a emissioni zero almeno sulle tratte urbane. Alcune case come Renault puntano sulle prime, altre come Toyota sono concentrate sulle seconde, utilizzabili in funzionamento elettrico in città, ma con la possibilità di percorsi extraurbani in funzionamento endotermico e quindi con un più facile gradimento del mercato; altre ancora, come BMW, lavorano sui due fronti. Su quante saranno queste auto, tutto fa pensare che in assenza di straordinarie e illuminate politiche di sostegno – che nell’attuale quadro economico ci sentiremmo di escludere – l’ipotesi più ragionevole è che verranno prodotte nel quantitativo minimo necessario e non di più. Quante? Le valutazioni di CIVES stimano che, per raggiungere l’obiettivo dei 95 grammi, la quota di elettriche e ibride ricaricabili dovrebbe aggirarsi nel 2020 sul 10-12% del mercato annuo, totalizzando per l’Italia da oggi fino a quel momento un circolante di 600-700mila vetture. Questo dal lato offerta.

Ma noi l’auto elettrica ce la possiamo permettere? Almeno i due terzi delle auto vendute in Italia sono importate dall’estero, e nei Paesi del tutto privi di un’industria automobilistica locale come Norvegia e Danimarca la scelta a favore dell’auto elettrica è stata netta: dovendo importare, meglio importare pulito, da cui una drastica defiscalizzazione di questi oggetti. A casa nostra il quadro è più sfaccettato. Iniziamo dal punto di vista dell’utilizzatore, assumendo anche noi che importare un’auto pulita parrebbe preferibile. Il punto di partenza è che anche nel 2020 il suo prezzo sarà più alto di un 20-30% rispetto alle altre, perché i volumi produttivi non saranno ancora sufficienti a innescare forti economie di scala. Per contro il costo di esercizio, ricaricando la batteria con le normali tariffe elettriche domestiche, resta molto più basso.

Graverà inoltre sull’utilizzatore il costo dell’infrastruttura di ricarica necessaria; se questa, come atteso, sarà costituita per il 10% da strutture di ricarica pubblica (più o meno come le stazioni di carburante) e per il 90% da ricarica privata (nei box, nelle aree condominiali, nelle aziende e centri commerciali), la sua incidenza sarebbe di qualche frazione di eurocent al chilometro. Ipotizzando, infine, per la batteria una vita di 150.000 chilometri – ricercatori e industria sembrano concordi su questo aspetto – e guardando a quello che in gergo tecnico si chiama il “Total Cost of Ownership”, ne deriva complessivamente una situazione di vantaggio per l’auto elettrica, nonostante l’investimento iniziale più alto che certo non incoraggia la scelta di acquisto; per contenerne l’influenza, alcune Case pensano di fornire la batteria attraverso forme di leasing che diluiscano la spesa iniziale. In un futuro meno prossimo, raggiunte le economie di scala, le cose andrebbero ancora meglio.

Passiamo al punto di vista dell’economia del Paese. Un primo aspetto sono gli esborsi che sosteniamo verso l’estero per importare i veicoli e le fonti energetiche necessarie a farli muovere; denaro che evidentemente alimenta molto più le economie esterne che la nostra e che converrebbe ridurre al minimo. Un confronto tra l’auto elettrica e una “auto media”, rappresentativa dell’assieme delle diverse tecnologie al 2020 (esclusa l’elettrica), ci dice di nuovo che il quadro sarebbe accettabile, perché il maggior costo dei mezzi elettrici verrebbe compensato dal minor esborso per le loro fonti energetiche, a sua volta conseguenza dell’alta efficienza della catena “generazione elettrica + veicolo elettrico”, circa doppia rispetto ai veicoli tradizionali, e del minor prezzo di mercato delle fonti importate per la generazione elettrica (gas e carbone, col petrolio in misura trascurabile). E la situazione non potrà che evolversi a vantaggio degli elettrici per il crescente prezzo del barile, la riduzione di costo dei veicoli e il maggior ricorso alle fonti rinnovabili. Se poi l’auto elettrica la producessimo in casa nostra invece che importarla, tanto meglio.

L’altra angolazione da cui guardare sono gli oneri che la mobilità stradale esternalizza sulla società: i costi sanitari conseguenti alla cattiva qualità dell’aria nelle città, e gli investimenti e multe che il Paese nel suo assieme deve sostenere per rispettare i vincoli internazionali sulle emissioni di gas serra. Le stime di questi costi fatte dagli studi comunitari ExternE conducono a un quadro largamente positivo a favore dell’elettrico; e a un esame attento mettono anche in luce che le emissioni di CO2, considerate l’indicatore più rappresentativo della qualità delle diverse tecnologie veicolari, giocano in realtà sotto il profilo economico un ruolo molto inferiore a quello della bolletta relativa alle fonti energetiche utilizzate: un chilometro percorso con l’auto convenzionale grava sul Paese per circa 0,9 eurocent per quanto riguarda la CO2 e per 3,6 eurocent per l’import energetico. Una buona ragione per tenere d’occhio l’insieme degli aspetti economici.

Queste conclusioni favorevoli sembrano in realtà cozzare contro altre valutazioni condotte in Paesi OCSE, che viceversa non ritengono giustificate le attuali incentivazioni a sostegno della mobilità elettrica. Quella posizione deriva soprattutto dall’includere nel bilancio economico complessivo anche l’esborso pubblico destinato alle incentivazioni, che evidentemente nella fase di avvio del processo rappresenta una voce di costo. Si tratta quindi di una visione limitata all’immediato e lontana dal rappresentare il quadro di una situazione compiutamente consolidata.

Tutto bene, dunque? Non esattamente, perché un soggetto che resta penalizzato c’è: il fisco. Con l’attuale fiscalizzazione, il combinato degli introiti IVA e accise è decisamente a sfavore dell’elettrico. Il fisco dunque, paradossalmente, come possibile ostacolo verso il ricorso a una innovazione altrimenti favorevole al Paese? La filosofia delle Carbon Tax non è nata per stimolare le scelte virtuose?

Ci si domanda: tutto elettrico allora? Certamente no, il razionale chiede semplicemente che i segmenti della mobilità oggettivamente compatibili con le prestazioni degli elettrici si orientino gradatamente verso questa scelta e che, parimenti, i segmenti che non ne sono totalmente compatibili con piena soddisfazione operativa ed economica ne vengano esclusi. Ogni forzatura (e vi sono, innescate da valutazioni sommarie o da pure esigenze di visibilità) rischia di condurre a effetti controproducenti.

Quello che resta da convincere è l’utilizzatore. Una ragione spesso invocata come causa dello scarso successo odierno della mobilità elettrica è l’assenza di un’adeguata infrastruttura di ricarica che rimuova “l’ansia da bassa autonomia”. È un’esigenza concreta e ineludibile che però, a parere di chi scrive e a costo di essere fuori dal coro, non restituisce una rappresentazione adeguata della realtà. Lo sviluppo della rete di ricarica, sia pubblica che privata, equivale al rimuovere un ostacolo, è una componente funzionale irrinunciabile al pari delle pompe di carburante, ma non può essere di per sé una motivazione. Occorre prendere atto che la grande platea dei consumatori orienta le proprie scelte non sulle preoccupazioni climatiche ma su percezioni individuali: prestazioni, economicità, appeal estetico, e oggi l’auto elettrica può al più giocare la sua competitività sull’ultimo. Gli interventi legislativi attuati a livello internazionale tendono a rimuovere gli ostacoli sostenendo l’avvio della rete di ricarica e l’acquisto incentivato dei veicoli. Queste misure sono in atto con profilo sperimentale anche in Italia (legge 134/2012), con supporti economici per l’infrastruttura e l’incentivazione dei mezzi elettrici ma anche, contestualmente, per l’incentivazione di tutte le altre tecnologie a “basse emissioni”.

È un inizio, la cui efficacia è però fortemente indebolita da diversi elementi: l’erogazione della maggior parte dei fondi è subordinata alla contestuale rottamazione di un vecchio veicolo che spesso non c’è; l’entità degli incentivi per gli elettrici è lontana dal renderli competitivi con le tecnologie concorrenti, a loro volta incentivate; lo sviluppo della rete di ricarica non è armonizzato con la diffusione dei veicoli, col rischio di creare un’infrastruttura “orfana” di oggetti da ricaricare.

Ma al di là di tali limitazioni, e ferma restando la necessità di correttivi alla legge, anche la presenza delle incentivazioni, a maggior ragione se modeste, è probabilmente insufficiente a sollecitare l’attenzione di una massa critica di consumatori.

E allora? Allora, a parere di chi scrive, la palla nella fase odierna è nelle mani delle amministrazioni locali, dei Sindaci, delle città. Assieme all’infrastruttura e alle incentivazioni economiche occorrono misure di sostegno indirette che vengano percepite dall’utilizzatore come forme compensative delle limitazioni e dei vincoli posti dai mezzi elettrici, e che possono trovare origine proprio nella valenza ambientale di questi veicoli: l’accesso privilegiato alle aree ZTL e alle tratte normalmente limitate al solo traffico pubblico, l’utilizzo gratuito o agevolato dei parcheggi, tutte cose a costo zero o al più con riduzioni marginali degli introiti delle amministrazioni; regolamentazioni in questo senso iniziano ad apparire, anche se disarmoniche e a macchia di leopardo, una visione coordinata aiuterebbe.

Ma accanto a questi interventi, l’azione probabilmente più concreta per costituire un mercato di avviamento che sia di solida testimonianza e anche di incoraggiamento all’industria dovrebbe consistere nell’identificazione degli utilizzatori, come è stato fatto in Francia attraverso indagini che hanno determinato l’esistenza di un primo contingente di 100.000 auto e furgoni di flotte e aziende con impieghi del tutto compatibili con l’introduzione di mezzi elettrici, che sono ora oggetto di piani di acquisto coordinati. Si tratta di azioni condotte su impulso delle istituzioni (in Francia le Poste stimolate a livello governativo, in Inghilterra il Department of Transport), ma che potrebbero essere fatte proprie anche da città e Regioni nei propri ambiti territoriali.

E sull’ambiente? Le cifre esposte sui costi dell’import energetico e delle emissioni degli elettrici testimoniano di per sé della loro maggior sostenibilità ambientale ed energetica, ma ciò non manca di sollevare dubbi. Il Wall Street Journal titolava spiritosamente che le “Green cars have a little dirty secret”, ovvero: la costruzione dell’auto elettrica con la sua batteria produce emissioni di CO2 superiori a quelle dell’auto convenzionale, quasi il doppio. Vero, ma nondimeno il bilancio complessivo della costruzione + utilizzo resta a favore dell’elettrico di un buon 30%, e non può che migliorare col crescente ricorso alle fonti rinnovabili.

E poi, chi ha stabilito che in un’analisi del ciclo di vita ci si debba fermare alla costruzione del veicolo? Tutta la filiera a monte, la realizzazione di raffinerie, petroliere e oleodotti da cui il veicolo endotermico dipende totalmente davvero non contano nulla? Infine, e per buona misura, stampa e blog si sono ultimamente concentrati sulla pericolosità delle batterie dell’auto elettrica per la salute e l’ambiente. È indubitabile che qualunque processo tecnologico presuppone l’adozione di tutte le misure necessarie a rispettare salute e ambiente, ed è quanto viene fatto per le batterie di tutta l’elettronica consumer odierna: PC, tablet, smart phone e quant’altro. Oggetti che utilizzano esattamente la stessa famiglia di batterie al litio dell’auto elettrica. Come mai il problema non è mai stato sollevato per quelle applicazioni, forse per una questione di quantità? I 5 miliardi di cellulari che si stimano per i prossimi dieci anni e i 100 milioni di iPad all’anno previsti da oggi in poi comporteranno al 2020, in una stima almeno grossolana, la costruzione e il riciclaggio di più o meno 2 milioni di tonnellate di batterie al litio. Questo quantitativo equivale a quello di una popolazione di 13 milioni di auto elettriche che, anche nella più rosea delle ipotesi, non ci saranno.

Tirando le somme, i dubbi e le incertezze sollevati non convincono. L’auto elettrica ci sembra rimanere un ottimo affare, capace di ridurre la dipendenza energetica del Paese, migliorare la qualità della vita nelle città e contenere le emissioni climalteranti: tutto questo risparmiando alla lunga denaro. Un affare che forse dovrebbe essere affrontato con maggior convinzione e una più attenta cabina di regia. 

L’articolo è stato pubblicato sul n.4/2013 della rivista bimestrale QualEnergia con il titolo “Gira la ruota elettrica”.

A fine novembre Qualenergia.it pubblicherà lo Speciale tecnico “Mobilità elettrica urbana: tecnologie per il mercato

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