Gli investitori avvertono l’industria del fossile: il pericolo è la ‘bolla del carbonio’

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Un gruppo di 70 investitori, responsabili collettivamente di oltre 3.000 miliardi di asset, scrive ai colossi dell'industria energetica mondiale: si pretendono chiarimenti su come queste compagnie intendano affrontare il rischio che un'auspicabile decarbonizzazione dell'economia pone alle loro attività. Il pericolo di una bolla degli asset del fossile non può essere più ignorato.

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Gli investitori stanno sentendo sempre più chiaramente il ticchettio della bomba finanziaria legata agli asset in fonti fossili e chiedono ai grandi dell’energia un ripensamento strategico. L’ultima notizia è quella della lettera che un gruppo di 70 investitori, responsabili collettivamente di oltre 3.000 miliardi di asset, ha spedito ai colossi dell’industria energetica mondiale, 45 compagnie, tra le quali la nostra partecipata pubblica Eni (in allegato in basso lettera e lista dei destinatari).

“Vogliamo sapere quanto le riserve (della compagnia, ndr) siano esposte ai rischi associati alle attuali e future politiche orientate alla riduzione delle emissioni di gas-serra dell’80% entro il 2050”, recita la missiva, che chiede spiegazioni su quali siano “le opzioni messe a punto per la gestione di questi rischi“. Ad esempio “la riduzione della ‘carbon intensity‘ degli asset o l’alienazione di quelli più inquinanti”, ma anche “la diversificazione dei business attraverso l’investimento in fonti con minori emissioni”.

Il problema è noto: se vogliamo evitare gli effetti peggiori del global warming gran parte delle riserve fossili in possesso delle compagnie del settore dovranno rimanere nel sottosuolo, con conseguenze economiche potenzialmente disastrose per i loro bilanci. Ma allo stesso tempo se questi idrocarburi venissero bruciati, gli impatti sul cambiamento climatico colpirebbero duramente anche l’industria delle fossili: basti pensare ai milioni di barili al giorno di capacità estrattiva che gli uragani Rita e Kathrina hanno messo fuori gioco per mesi. 

Nella lettera si spiega efficacemente questo dilemma. Nel suo World Energy Outlook 2012, la IEA valuta che per raggiungere l’obiettivo dei 2 °C di riscaldamento massimo, non si potrà bruciare più di un terzo delle riserve provate (vedi grafico sotto). In questo scenario, mostrano le stime del gruppo bancario HSBC, il valore di gran parte delle aziende del settore crollerebbe del 40-60%. La decarbonizzazione necessaria per frenare il global warming potrebbe inoltre far calare il prezzo dei prodotti petroliferi, riducendo ulteriormente il valore delle riserve, evento che, secondo Standard & Poor’s, porterebbe ad un declassamento nel rating di affidabilità delle compagnie del comparto oil & gas.

Eppure il mondo delle fossili sembra procedere come nulla fosse: nel 2012, mostra un report dell’ong Carbon Tracker Initiative (allegato in basso), le 200 aziende più grandi hanno investito 674 miliardi di dollari in nuove riserve. Gas, petrolio e carbone che potrebbero essere destinati a rimanere sotto terra, con un conseguente buco nell’acqua a livello economico: stranded assets è il termine usato, cioè asset “arenati”, che non potranno essere valorizzati.

È la cosiddetta bolla della CO2 o bolla del carbonio, una bomba che potrebbe minare l’economia mondiale: la capitalizzazione legata alle risorse fossili al momento ha un ruolo molto importante su diverse Borse: 20-30% in Borse come quella australiana, Londra, Mosca, Toronto e San Paolo (vedi grafico sotto per i valori assoluti in CO2). Inoltre nelle fonti fossili hanno investito e continuano ad investire moltissimo Stati, enti locali e grandi fondi pensione.

La nota positiva è che le voci che si levano per avvertire del rischio i giganti delle fossili sono sempre di più. L’iniziativa in questione – promossa da Ceres, organizzazione non-profit che dirige un network con oltre 100 investitori istituzionali da 12.000 miliardi di dollari, da Carbon Tracker Initiative e da Global Investor Coalition on Climate Change – arriva in un clima sempre più saturo di dubbi da parte degli azionisti delle grandi dell’oil & gas sul merito e l’opportunità degli investimenti realizzati o da realizzare. “Stiamo operando in un contesto in cui c’è molto malcontento su come si sta gestendo l’industria delle fossili; un clima molto diverso rispetto a quattro o cinque anni fa, quando le compagnie sembravano intoccabili”, spiega Andrew Logan di Ceres.

Frutto del nuovo clima il fatto che 30 dei 45 colossi industriali interpellati hanno iniziato a fornire dei riscontri preliminari alle perplessità espresse dagli investitori. “Molte delle risposte ricevute – ha fatto sapere Mark Fulton, membro del Carbon Tracker’s Advisory Board e consigliere di Ceres – riconoscono che esistono rischi legittimi” e le aziende si sono mostrate “aperte a continuare un confronto con la comunità degli investitori”.

Notiamo, invece, che una questione così delicata, che Qualenergia.it sta evidenziando da alcuni mesi, perché toccherebbe interessi di grandi e piccoli risparmiatori, è ancora quasi completamente assente sulla stampa italiana, inclusa quella economica.

La lettera (pdf)

La lista dei destinatari (pdf)

Il report di Carbon Tracker Initiative (pdf)

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