States ed Europa: politiche energetiche divergenti

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Le politiche energetiche e sul clima di USA e UE non si sono mai sincronizzate, anche se originariamente puntavano entrambe su sicurezza degli approvvigionamenti, sostenibilità ambientale e competitività economica. Una ricerca di Marianne Haug dell’Università di Hohenheim sottolinea tali divergenze. Ma è poi tutto così negativo?

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Immaginiamo che il presidente americano, in un drammatico discorso alla nazione, riveli che un esercito ostile si sta ammassando alla frontiera con il Canada, in alcuni casi sconfinando nel territorio statunitense. Il discorso presidenziale prosegue poi con toni solenni, ribadendo l’impegno assoluto a respingere l’invasore e sul come il Presidente e le Forze Armate faranno di tutto per difendere la vita e la libertà degli americani attuali e di quelli delle prossime generazioni.

Poi, però, il Presidente precisa “Cittadini, la minaccia di invasione è grave, ma non possiamo far sì che questa influisca sui nostri stili di vita. Per cui, invece di mobilitare la popolazione e razionare le risorse, come accaduto nelle guerre precedenti, tutto continuerà più o meno come prima, andate a lavorare, fate acquisti, sposatevi, divertitevi, partite per le vacanze. Non vi preoccupate. Contro il nemico useremo un po’ della Guardia Nazionale, metteremo i nostri scienziati al lavoro per trovare una qualche arma miracolosa e per ora ci limiteremo a tamponare qua e là l’invadenza del nemico. Anzi,visto che molti dei nostri più validi consiglieri dicono che in fondo questo nemico non è poi così cattivo, cercheremo di evitare del tutto la guerra, inviandogli doni, anche se questi potrebbero rinforzarlo. Però vi garantisco che se in futuro, i suoi carri armati dovessero calpestare il prato della Casa Bianca, allora sì che ci arrabbieremo e scateneremo contro di lui tutta la potenza del nostro paese”.

Un simile discorso, escludendo che il Presidente Usa fosse impazzito, non potrebbe che far pensare che la minaccia tanto sottolineata all’inizio del discorso, non sia poi così grave, anzi forse non esista proprio, visto la debolezza e contraddittorietà delle misure prese. Oppure, al contrario, che, per qualche ragione misteriosa, quel nemico non si possa o voglia contrastarlo veramente. Questa, fuor di metafora, è l’impressione che ha fatto in molti il recente discorso del Presidente Obama, sulla minaccia del cambiamento climatico, prima indicata come gravissima, ma poi ridotta, di fatto, a problema secondario, per le misure vaghe, deboli e ambigue preannunciate contro di essa.

In realtà la cosa non deve sorprendere molto. Sono ormai una ventina di anni che gli Usa, un paese i cui scienziati sono pure stati fra i più importanti nella scoperta e nella definizione della minaccia del global warming, segue una strana, ai nostri occhi europei,  politica in campo energetico, dove i fatti pratici, smentiscono in gran parte quanto dovrebbe conseguire dagli allarmi climatici.

Lo sottolinea una ricerca sulle differenze fra la politica energetica degli Usa e della Unione Europea, scritta per il Journal of Transatlantic Studies, dalla tedesca Marianne Haug dell’Università di Hohenheim. La Haug fa notare come fin dal 1993, all’indomani della Conferenza di Rio sul clima, Usa e UE decisero di sincronizzare le loro politiche energetiche in vista di tre obbiettivi principali: sicurezza sulle forniture, sostenibilità ambientale e competitività economica. Ma da allora, nonostante le intenzioni, i due blocchi transatlantici sono andati ognuno per la sua strada: gli Usa puntando soprattutto su sicurezza e competitività, gli europei (almeno come politica comunitaria, ma con notevoli differenza di approccio fra un paese e l’altro), soprattutto sulla sostenibilità.

Il risultato è che negli ultimi decenni gli Usa hanno, di fatto, soprattutto ricercato nuove fonti fossili ed evitato di prendere impegni vincolanti di riduzione delle emissioni, affidando invece questo obbiettivo soprattutto a progetti di lungo periodo, e spesso di incerta realizzazione, come il nucleare di quarta generazione, il sequestro della CO2, l’uso di idrogeno e fuel cell, l’aumento di efficienza energetica.

Culmine di questa politica, in questi ultimi anni, è stato lo sfruttamento di petrolio e gas da scisto, riversando enormi finanziamenti pubblici e privati al perfezionamento e uso su larga scala di tecniche già esistenti come la perforazione orizzontale e la fratturazione idraulica delle rocce. In questo modo la produzione di gas da scisto è passata in 10 anni da fornire l’1% del metano usato negli Usa al 23%, facendo parlare di futura indipendenza energetica statunitense.

Anche se i dubbi sulla sostenibilità ambientale ed economica di questa fonte sono molti, la sostituzione del carbone con l’economico gas da scisto in molte centrali elettriche ha almeno contribuito a far scendere le emissioni di CO2 Usa del 3,8% nel 2012. Una riduzione, che però è tutt’altro che permanente: essendo per ora affidata solo al gioco dei prezzi: se in futuro il gas da scisto dovesse aumentare di prezzo (cosa indispensabile per rendere sostenibile economicamente la sua estrazione: al momento perforare sempre nuovi pozzi per mantenere la produzione, costa 42 miliardi di dollari l’anno, contro 35 miliardi di ricavi dalla vendita del gas), il carbone tornerebbe nelle centrali, invertendo la tendenza.

Inoltre, il carbone non usato negli Usa, sta venendo in parte esportato a basso costo in Asia ed Europa, facendo emettere lì la CO2 evitata in patria. Nello stesso periodo negli Usa il sostegno alle fonti rinnovabili è stato relativamente ridotto, e basato su sconti fiscali federali di breve durata e, solo in 34 Stati, quote obbligatorie, spesso molto basse, di rinnovabili da inserire nel sistema elettrico. Questo ha fatto sì che si sviluppassero soprattutto fonti già economicamente convenienti, come l’eolico nel Midwest, e per potenze basse, in confronto ai consumi e al potenziale di rinnovabili detenuto dagli Usa. 

In pratica l’unico vero progetto di rinnovabili convintamente sponsorizzato negli Usa, è stato quello del bioetanolo ricavato dal mais, una tecnologia, notoriamente, che dà risultati molto scarsi per quanto riguarda la riduzione della CO2.

Al contrario, nello stesso periodo, l’Europa ha ratificato ed è riuscita a rispettare il trattato di Kyoto, ha varato il meccanismo ETS per la limitazione delle emissioni industriali, ha previsto la sostituzione del 10% dei combustibili fossili con biocombustibili e, soprattutto, ha adottato nel 2007 la famosa direttiva del 20-20-20, che prevede fra l’altro, di far salire al 20% dell’energia del continente da fonti rinnovabili, dal 9% di partenza (ma siamo già oltre il 20% per quanto riguarda l’elettricità).

Per raggiungere questi obbiettivi sono stati investiti in rinnovabili in Europa una marea di soldi pubblici e privati: 230 miliardi di dollari fra il 2004 e il 2010, contro  i 150 miliardi statunitensi, largamente superati anche dall’investimento asiatico, 203 miliardi. Per la Haug possibili inversioni di tendenza nei due campi, indipendentemente da chi vada al potere, sono molto improbabili: le sensibilità europee e americane sono troppo diverse.

Gli europei sono molto più preoccupati dei secondi riguardo alle problematiche climatiche e ambientali e, per risolverle, sono disponibili anche ad accettare tasse più alte e costi maggiori dell’energia, mentre sono invece molto restii a permettere nelle loro terre densamente abitate, un tipo di  sfruttamento degli idrocarburi così invasivo e potenzialmente inquinante, come quello da fracking.

Gli americani, ancora con una forte minoranza di scettici (circa il 40% della popolazione) riguardo al climate change,  invece, vedono come prioritario assicurarsi la sicurezza nelle forniture energetiche e danno per scontato che l’energia debba costare poco, per cui ben difficilmente accetteranno grandi spese pubbliche per il sostegno alle nuove rinnovabili, lasciando invece che sia il mercato a promuovere, via via che diventano competitive, le tecnologie vincenti, e per adesso vince lo shale gas.

Infine l’influenza delle lobby energetiche fossili, è molto più pesante negli Stati Uniti che in Europa. Difficile dire quale delle due strategie risulterà più razionale e produttiva, sul lungo periodo. Ma la studiosa tedesca non vede questo muoversi in modo divergente delle come negativo. “I due approcci non solo sono complementari, con il gas naturale come migliore opzione per compensare l’intermittenza di vento e sole, ma offrono anche due modelli diversi a cui il resto del mondo può ispirarsi, per le transizioni locali a sistemi energetici più sostenibili. In alcuni paesi, meno densamente abitati di quelli europei, dotati di scisti sfruttabili e con grande uso di carbone, il modello americano di transizione attraverso il gas, in vista di un miglioramento decisivo delle fonti rinnovabili, potrebbe essere il migliore. In altri, e soprattutto privi di giacimenti di scisto o delle risorse per sfruttarli, l’uso da subito di fonti rinnovabili, potrebbe essere la strategia più adatta da seguire».

Grazie anche, bisogna aggiungere, all’enorme sforzo finanziario europeo, che, facendo crollare i costi industriali di molte tecnologie rinnovabili, le ha messe alla portata di paesi che, fino a pochi anni fa, non le avrebbero potute certo usare.

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