Mercato elettrico: il PUN in altalena e lo zampino delle fonti rinnovabili

Il Prezzo Unico Nazionale (PUN) dell’energia elettrica che si forma giorno per giorno in Borsa elettrica resta relativamente basso ma con grandi sbalzi orari e zonali, in alto e verso lo zero, non legati necessariamente alla quantità di elettricità richiesta. Per capire come si stia formando in questa fase il prezzo dell'elettricità sul mercato, QualEnergia.it ha intervistato Giuseppe Artizzu, della società di consulenza energetica Cautha.

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Da alcune settimane, il Prezzo Unico Nazionale (PUN) dell’energia elettrica che si forma giorno per giorno in Borsa elettrica resta relativamente basso (intorno ai 65 euro/MWh), ma con grandi sbalzi orari e zonali, non legati necessariamente alla quantità di elettricità richiesta (in genere, più richiesta equivale a un costo maggiore). In certe ore, inoltre, il prezzo minimo pagato in alcune zone d’Italia scende addirittura a zero, trascinando giù il PUN nazionale, ma contemporaneamente resta molto alto in altre. In Sicilia, per esempio, siamo alla schizofrenia, con prezzi minimi a zero, e i massimi più alti d’Italia. Il fenomeno si ripete spesso nei giorni festivi, quando la domanda è ai minimi (per esempio, domenica 7 aprile), ma si verifica ormai anche nei feriali (per esempio venerdì 12 aprile), per essere seguito poi da un sabato con consumi molto minori, ma prezzi maggiori. Abbiamo chiesto lumi su questo andamento da montagne russe del mercato elettrico a Giuseppe Artizzu, della società milanese di consulenza energetica Cautha.

Dottor Artizzu, questi sbalzi generali e locali nel mercato elettrico sono normali?

Prima di rispondere occorre ricordare come si forma il PUN. E’ il risultato di aste, che coprono la richiesta di energia prevista, ora per ora, con l’elettricità offerta da vari operatori. Nelle aste si accetta, cioè si dispaccia, prima l’offerta più economica e poi, via via, i “pacchetti” più cari, fino a coprire tutto il fabbisogno. Dato che a determinare il prezzo orario che si applica a tutti gli impianti è la fonte più cara selezionata, la cosiddetta “marginale”, immissioni di energia a basso prezzo, escludendo le fonti più care all’altro estremo, fanno abbassare notevolmente il costo di tutto il pacchetto di offerte. Le rinnovabili non programmabili, come solare ed eolico, sono offerte a prezzo zero, così da non rischiare di non essere selezionate, ben sapendo da una parte di non avere costi di combustibile da coprire, e dall’altra che non saranno comunque remunerate zero, ma al prezzo determinato dalla fonte marginale. Il loro effetto è quindi quello di far scendere il prezzo dei gruppi di offerte orarie in cui entrano. Quando la selezione di impianti che risulta dall’asta è incompatibile con la capacità di trasporto della rete, il Gestore del Mercato scompone l’asta principale in subaste zonali al fine di determinare una selezione di impianti compatibile con la capacità di trasporto. Si formano in tal caso prezzi zonali, la cui media forma il PUN nazionale. Chiarito il meccanismo, il fenomeno del prezzo a zero non è una novità. Già l’anno scorso nei week-end estivi abbiamo osservato dinamiche simili. Nel 2013, l’ulteriore calo della domanda, l’aumento dell’offerta di rinnovabili non programmabili e una stagione invernale eccezionalmente ventosa e piovosa ne hanno facilitato l’occorrenza anche fuori dalla stagione estiva. Nei prossimi mesi succederà ancora più di frequente, per l’incremento stagionale dalla produzione solare. Si può dire che il PUN, ormai dipenda tanto dalla quantità di energia richiesta, quanto dalla presenza di sole e vento: se questi sono abbondanti, riescono a farlo calare anche più che in giorni con domanda minore, ma poca generazione rinnovabile.

Ma questo PUN così basso si può solo considerare un fenomeno positivo, perché fa calare le bollette, o ha anche un aspetto negativo, perché rende ancora più difficile la vita a chi genera elettricità con il gas? Il gas copre ancora quasi il 50% della generazione elettrica italiana, ma il settore è in difficoltà per l’erosione delle fasce più redditizie della giornata a opera del solare. Assoelettrica dice che tutto questo è un frutto avvelenato degli incentivi….

Non lo definirei un fenomeno positivo o negativo, quanto fisiologico in un sistema ad elevata penetrazione di fonti non programmabili senza combustibile. Ci sono con una certa frequenza momenti di overgeneration, la cui manifestazione economica è l’azzeramento del prezzo all’ingrosso. Al contrario di quanto asserisce Assoelettrica, questo non è un effetto diretto degli incentivi: se ho un impianto fotovoltaico non ho alcun interesse a offrirlo sul mercato ad un prezzo superiore a zero, perché rischierei di non essere dispacciato senza poter recuperare quella produzione in un’altra fascia oraria. Che poi rischierei di perdere anche gli incentivi rafforza il razionale, ma anche senza incentivi la strategia di offerta non muterebbe. Del resto, anche l’energia degli impianti idroelettrici ad acqua fluente non incentivati viene offerta a zero nelle aste, perché l’acqua che passa o la si usa subito o la si perde…

Intanto, però, gli operatori del termoelettrico, concentrano sempre di più la produzione più costosa nelle ore di alti consumi dove il solare non arriva, come la prima serata, creando sbalzi di prezzo incredibili, di 3, 4 o 5 volte rispetto al prezzo minimo. In Sicilia, poi, in certi giorni si passa dal un minimo di 0 euro/MWh a 180 €/MWh di massimo …

La magnitudo dei picchi serali è decisamente minore rispetto a quanto osservato l’anno scorso, e sostanzialmente compatibile con il costo di produzione di quegli impianti a gas chiamati a produrre poche ore al giorno. A differenza che nel 2011-2012, mi sembra che il mercato all’ingrosso abbia digerito il break strutturale dato dall’esplosione del FV e ora funzioni piuttosto bene.  La minore entità dei picchi serali dipende anche dal minor costo del gas sui mercati spot europei (importato via tubo grazie al rilascio della capacità di import occupata solo su carta), dalla presenza di un’ingente quantità di gas pre-pagato negli anni passati per clausole take-or-pay di cui gli importatori si devono disfare abbassando i prezzi, e da uno spostamento verso la serata della produzione idroelettrica a bacino (peraltro più abbondante dell’anno scorso grazie al meteo). Il caso siciliano, poi è particolare: l’isola è poco collegata con il resto d’Italia, ha un parco termico costoso, e contemporaneamente molto eolico e solare, per cui passa da momenti dove le rinnovabili coprono da sole la domanda, ad altri dove devono intervenire massicciamente le centrali termoelettriche che, per mancanza di alternative, possono caricare costi elevati.

Ma non si può fare nulla per ridare un po’ di coerenza e stabilità al PUN, evitando eccessi in un senso e nell’altro?

In realtà i prezzi medi giornalieri sono stati complessivamente stabili negli ultimi mesi. Per quanto riguarda invece la variabilità oraria, pur fisiologica in un sistema con molte fonti intermittenti, c’è tuttavia un aspetto patologico, ed è la non partecipazione degli impianti idroelettrici a pompaggio alla formazione dei prezzi zonali nelle ore diurne, anche quando il prezzo va a zero. Ove pure ci fossero esigenze di sicurezza del sistema ad imporre restrizioni all’utilizzo, ritengo paradossale che 7 GW di pompaggi restino di fatto fuori dal mercato. Se offerti sul mercato secondo logiche di economicità, ridurrebbero in modo drastico la volatilità dei prezzi orari e la magnitudo dei prezzi serali, oltre ad aumentare il margine di riserva primaria in situazioni di basso fabbisogno.

Ma i pompaggi sono quasi tutti al nord, lontani dalle rinnovabili, e se si usassero massicciamente, si eroderebbe anche il “picco serale”, che ha funzionato da ciambella di salvataggio per il termico …

In realtà i pompaggi sono in tutte le zone di mercato tranne la zona Sud: 600 MW in Sicilia, 250 MW in Sardegna, circa 1.500 MW nel Centro sud, 300 MW nel Centro nord, il resto sulle Alpi. Un utilizzo secondo criteri di economicità (e non solo ai fini della sicurezza della rete) ridurrebbe ulteriormente la profittabilità dei termoelettrici? Certamente. Ma questa è una buona ragione per non porsi il problema del sottoutilizzo di una risorsa fondamentale per la gestione economica del sistema in presenza di rinnovabili intermittenti? Assolutamente no.

Però si nota anche che mentre al Sud e Centro sud i prezzi sono bassissimi, al Nord questa primavera sono restati molto alti. Visto che il Nord è il maggior consumatore elettrico italiano, il doppio del Sud, collegare meglio le due aree, permettendo di “esportare” a nord l’elettricità rinnovabile a “costo zero” del sud, avrebbe effetti positivi immediati.

L’elevato differenziale nord-centro osservato nelle ultime settimane non è strutturale. Dipende da prezzi alti, per ragioni meteorologiche, in Francia e Svizzera, che hanno drasticamente ridotto l’import in zona nord nelle ore diurne. In alcune ore le linee transfrontaliere con Francia e Svizzera hanno anzi funzionato in export. E’ chiaro che se la capacità di interconnessione fra centro e nord fosse maggiore avremmo esportato di più e i prezzi della zona nord sarebbero stati più prossimi a quelli delle zone meridionali. Che però questo giustifichi investimenti in interconnessione dipende dalla frequenza con cui la zona nord verrà trascinata in alto dai mercati continentali, una volta passato il freddo fuori stagione. Sono abbastanza scettico che questo accadrà, anche se mi piacerebbe essere smentito, perché sarebbe sintomo di competitività del nostro parco di generazione rispetto a quelli esteri.

Ma lei ritiene che l’attuale sistema di formazione del PUN sia adeguato a tutelare sia l’espansione delle rinnovabili, che la sopravvivenza del termico?

Il disegno di mercato elettrico prevalente in quasi tutta Europa (prezzo orario determinato dal costo variabile dell’ultimo impianto chiamato a produrre) è il più idoneo a gestire una crescente quota di rinnovabili intermittenti, in quanto riflette in tempo reale il valore dell’energia al variare dell’offerta. Se il prezzo va a zero (o diventa negativo, se ammesso dalla normativa) è perché in quel momento c’è troppa energia. Se tre ore dopo il prezzo va a 100 €/MWh è perché gli impianti che hanno la capacità di seguire in modo rapido la rampa del fabbisogno al cadere della produzione solare o eolica devono coprire costi addizionali per lavorare poche ore al giorno. In questo senso credo che il mercato stia funzionando “bene”. Ad andare in crisi quindi non è il disegno di mercato, è il modello economico di impianti di generazione concepiti come base load, ossia per funzionare 24/7, o almeno accendersi al mattino per spegnersi in tarda serata. Con l’affermazione del fotovoltaico quegli impianti sono in difficoltà. Forse la sovraincentivazione del fotovoltaico ha anticipato di qualche anno questa crisi, magari improvvidamente, ma in un paese ad alta irradiazione come l’Italia era inevitabile che accadesse vista la curva di costo della tecnologia solare. La generazione con gas naturale, del resto, è in crisi anche all’estero, ma il caso italiano è più grave perché i nostri impianti sono troppi e quasi tutti nuovi.

Ma allora come si può conciliare la crescita delle rinnovabili, con la salvaguardia del parco termoelettrico, che resterà comunque indispensabile come base load e per compensare le intermittenze di sole e vento, ancora per molti decenni?

Nonostante l’intermittenza di sole e vento aumenti il monte ricavi da servizi di rete per gli impianti programmabili, un buon numero di questi impianti dovrà essere comunque essere messo a riposo. Questo non dipende solo dalle rinnovabili, ma soprattutto da 50 TWh annui di domanda in meno rispetto a quanto atteso quando molti di quegli impianti sono stati costruiti, nello scorso decennio. Il problema è che nessuno ha interesse a muoversi per primo, perché è verosimile che chi tiene duro diventi “essenziale” per la rete, assicurandosi una forma di capacity payment, cioè un premio per la disponibilità ad intervenire all’occorrenza. Non c’è una soluzione ovvia, ma in linea di principio è con l’imminente sistema competitivo di attribuzione del capacity payment che si dovrebbero identificare gli impianti “essenziali”. Insomma, saremo in equilibrio quando gli impianti sul mercato saranno in grado di remunerare il capitale investito attraverso operatività flessibile sul mercato dell’energia, operatività sul mercato dei servizi di dispacciamento e capacity payment. Senza pretendere di tornare al passato o rischiare di pregiudicare la sicurezza del sistema. Non credo ci siano scorciatoie.

Ma non è che l’evoluzione del sistema energetico a cui abbiamo assistito in questi anni, alla fine, premi lo sporco ma economico carbone, a svantaggio dell’ambientalmente più accettabile gas naturale? Dal 2011, in effetti, oltre al boom delle rinnovabili e alla crisi del gas, in Europa, si è assistito anche a un aumento del ricorso al carbone, con un probabile peggioramento delle emissioni di CO2.

L’aumento dell’uso del carbone, in Europa, è in parte effetto di contingenze, come la chiusura anticipata delle centrali nucleari tedesche e l’immissione di molto carbone americano economico sul mercato, a seguito del boom del gas da fracking in quel paese. Ora il prezzo del gas americano è in risalita, e numerose centrali a carbone, soprattutto in Inghilterra, sono destinate al decomissioning per obsolescenza. Il problema della competitività relativa del carbone rispetto al gas, per effetto del collasso dei prezzi dei diritti di emissione di CO2, è tuttavia reale e di non facile soluzione. Anche per l’ostilità ad interventi correttivi da parte dei paesi europei con carbone domestico, e anche da parte di alcuni settori industriali.

Anche in Italia assisteremo a un “boom del carbone”?

Pare di no. Dopo la crescita del 2012, da ottobre i fattori di carico degli impianti a carbone sono in netto calo. A perdere ore di funzionamento sono soprattutto Brindisi Sud, gli impianti sardi e anche Civitavecchia. Che le rinnovabili stiano per la prima volta interferendo con i programmi di produzione delle centrali a carbone potrebbe essere alla base della malcelata insofferenza di Assoelettrica verso gli attuali criteri di dispacciamento. Secondo Assocarboni ed Enel, il sistema elettrico italiano è sbilanciato sul gas. Ora, questo poteva essere vero qualche anno fa, quando molti impianti a gas coprivano il carico di base. Ma oggi non è più così. La maggioranza degli impianti a gas è ormai confinata a ruoli innaturali per le centrali a carbone: copertura dei picchi, fornitura di servizi di riserva alla rete, e soprattutto produzione contestuale di elettricità e vapore per utenze industriali (in assetto cosiddetto cogenerativo). Al contrario di quello che spesso si afferma, lo spazio per altro carbone in Italia, salvo forse al nord, non c’è: non è competitivo rispetto alle importazioni a basso costo e alle fonti rinnovabili senza combustibile, e non è tecnicamente versatile come il gas, nella maggioranza degli usi termoelettrici correnti. Del resto, se E.On ha cancellato il repowering a carbone di Fiumesanto, e la conversione di Porto Tolle è sparita dal piano finanziario dell’Enel, una ragione ci sarà …

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