La finanza, i grandi dell’energia fossile e l’allarme di HSBC: attenzione alla bolla della CO2

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Un report della banca mette in guardia dagli investimenti in fonti sporche: se la comunità internazionale terrà fede all'impegno di fermare il riscaldamento globale entro i 2 °C, il valore delle azioni delle grandi coorporation delle fonti fossili crollerà del 40-60%. Per contenere il colpo meglio disinvestire subito dal settore dell'energia ad alte emissioni.

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La chiamano la ‘bolla della CO2’ e quando scoppierà potrà avere effetti catastrofici per l’economia mondiale: quantità di denaro enormi potrebbero volatilizzarsi perché investite in risorse, le fonti fossili, che non si potranno sfruttare se si vuole evitare il disastro climatico. Un rischio di cui ora si sta rendendo conto sempre più chiaramente anche il mondo della finanza, che in questi ultimi anni non ha certo brillato per lungimiranza, impegnato com’è a seguire profitti a breve termine. L’allarme più recente sulla cosiddetta carbon bubble arriva da un report di uno dei più importanti gruppi bancari al mondo, HSBC.

Se la comunità internazionale dovesse tener fede agli impegni presi per fermare il riscaldamento globale entro la soglia critica dei 2 °C, vi si legge, il valore delle azioni delle grandi aziende delle fonti fossili potrebbe crollare del 40-60%. A causare la svalutazione degli asset dei grandi gruppi energetici il fatto che una quota rilevante delle riserve da loro possedute non potranno essere sfruttate e che, a causa riduzione della domanda e di legislazioni ambientali, i progetti estrattivi più costosi si riveleranno dei buchi nell’acqua.

Stando alle stime della International Energy Agency, infatti, per avere almeno il 50% di possibilità di contenere il riscaldamento globale entro i 2 °C, fermando l’aumento della concentrazione della CO2 a 450 ppm, circa un terzo delle riserve di fonti fossili provate attuali dovrebbe essere lasciata sotto terra (l’80% per avere possibilità maggiori di evitare il disastro, vedi sotto). Facile capire l’impatto che questo può avere su molte aziende: secondo HSBC ad esempio la norvegese Statoil vede a rischio di inutilizzabilità il 17% delle sue riserve, BP il 6%, Total il 5% e Shell il 2%. Ma l’”unburnable carbon” cioè le riserve che non si potranno bruciare, sono solo una parte del rischio economico: il resto lo farà il calo della domanda prevedibile se si proseguirà nella transizione energetica necessaria, che porterà a prezzi più bassi.

Secondo lo scenario low carbon della IEA tra il 2010 e il 2035 la domanda di carbone dovrà diminuire del 30%, quella di petrolio del 12%, mentre quella di gas crescerà lentamente. Se ciò avverrà si inizieranno a cancellare molti progetti di estrazione, a partire dai più costosi e rischiosi. Sarà molto improbabile che si realizzino progetti per estrarre petrolio a più di 50 dollari al barile, stima HSBC, mettendo così in dubbio il futuro di sabbie bituminose e estrazioni in acque profonde. Già ora – si fa notare – il 60% degli investimenti di Shell nelle tar sands sono stati bollati come “fuori mercato”.

Il risultato di tutto questo potrebbe appunto essere il crollo dal 40 al 60% del valore di mercato degli asset delle grandi aziende delle fonti fossili. Uno scenario preoccupante per l’economia mondiale visto che si parla di colossi aziendali: BP ad esempio vale circa 141,5 miliardi, Shell 231 miliardi, Statoil 83,3. “Crediamo che gli investitori non abbiano ancora valutato bene questo rischio, forse perché sembra così spostato nel tempo”, fanno notare da HSBC. “Ammettiamo che il nostro scenario possa esagerare il pericolo, visto che assume che un mondo low-carbon si realizzi ora, anziché dopo il 2020. In ogni caso dà un’indicazione dei potenziali impatti sul settore”.

In realtà lo scenario dipinto HSBC, forse il primo concepito da una banca d’investimento (anche se già diversi fondi d’investimento verdi hanno lanciato l’allarme della carbon bubble, vedi QualEnergia.it) è quasi ottimistico rispetto a un altro studio sulla bolla della CO2 di cui avevamo già parlato su queste pagine, cioè quello realizzato dall’Ong Carbon Tracker Initiative (QualEnergia.it, Gli investimenti in fonti fossili saranno i prossimi subprimes?). In quel lavoro si parte dalle stime del Potsdam Institute che, per avere almeno l’80% di possibilità di stare sotto ai 2 °C di riscaldamento globale, da qui al 2050 si potranno emettere 565 miliardi di tonnellate di CO2, mentre lo studio HSBC si basa sullo scenario IEA che ridurrebbe al 50% le possibilità di stare sotto ai 2 °C e che permetterebbe di emettere nello stesso periodo circa 1000 miliardi di tonnellate.

Se HSBC dunque ipotizza che si potranno bruciare solo due terzi delle riserve provate di carbone, petrolio e gas, Carbon Tracker Initiative assume che se ne possa bruciare solo il 20%. Uno scenario ancora più preoccupante che mostra come si stanno trattando come asset delle riserve che sono pari a 5 volte il budget che si potrà usare nei prossimi 40 anni.

Quale dei due scenari si verificherà dipenderà ovviamente dalla volontà politica di tagliare la CO2, volontà che sarà ovviamente condizionata anche dal potere della lobby e di chi ha investito in fossili. Ma anche l’impatto che il crollo degli asset  ad alta intensità di CO2 avrà sull’economia mondiale potrà essere diverso: quanto più in fretta si ridurranno gli investimenti nelle fonti sporche (come propone di fare ad esempio il movimento dal basso “Let’s divest from fossil fuels!”, vedi QualEnergia.it) tanto più facile sarà reggere il colpo.

Se invece si sottovaluterà questo rischio, quando si scoprirà che gran parte degli investimenti in fossili non si potranno incassare, le conseguenze a catena per l’economia mondiale potrebbero anche essere catastrofiche: la capitalizzazione legata alle risorse fossili su varie Borse al momento ha un ruolo molto importante (20-30% in Borse come quella australiana, Londra, Mosca, Toronto e San Paolo) e nelle fossili hanno investito e continuano ad investire moltissimo Stati, enti locali e grandi fondi pensione.

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