Doha chiude con la sottoscrizione del ‘Kyoto 2’ al 2020

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Il documento finale approvato 'Doha Climate Gateway' riguarda solo Unione Europea, Australia, Svizzera, Norvegia, cioè il 15% delle emissioni mondiali. Escono, rispetto al 1° Protocollo, Russia, Giappone e Canada. Per l'accordo globale si spera di arrivarci prima del 2015. Commento di Francesco Ferrante sulla conclusione della COP 18.

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Un risultato largamente al di sotto di ciò che sarebbe necessario. Ma almeno le  trattative sul clima sono ancora vive e la speranza non è stata cancellata, nonostante resistenze, veti incrociati, miopia politica diffusa. Si conclude così la Conferenza di Doha, la COP 18.

E visto da dove eravamo partiti – la vaghezza più spinta – e forse anche la location – il Paese con le più alte emissioni pro capite al mondo – forse ci tocca anche far buon viso a cattiva sorte. Certo la distanza tra ciò che sarebbe necessario e le scelte concrete resta enorme e anzi il continuo rinvio allarga ancora di più la forbice, ma la sottoscrizione di ‘Kyoto 2’ ci dice che è ancora possibile invertire rotta.

Una piccola cosa che riguarda solo Unione Europea, Australia, Svizzera e Norvegia (il 15% delle emissioni mondiali), che ha perso qualche pezzo rispetto al primo Kyoto (Russia, Giappone e Canada) e che continua a non coinvolgere i due giganti: la Cina, che contribuisce per il 29% alle emissioni totali e che ormai ha raggiunto l’Europa in termini di pro capite – oltre 7 tonnellate, quando erano al 20° posto appena 10 anni fa – e Stati Uniti che da soli pesano per il 16% e vantano il record di 17 tonnellate pro capite!

Ma persino riuscire a sottoscrivere questa piccola cosa non è stato facile perché si è dovuto evitare il tentativo della Russia che, volendo commercializzare i propri crediti di carbonio (oltre 5 miliardi di tonnellate), di fatto minacciava di rendere del tutto inutile Kyoto 2. Il compromesso per cui solo il 2,5% di questi crediti potranno essere commercializzati appare accettabile e quella sorta di Tobin Tax del 2% inserita in extremis su queste transazioni è un fatto positivo.

Ma, se resta confermato l’appuntamento al 2015, come stabilito a Durban, per raggiungere l’accordo globale che dovrà entrare in vigore al 2020 (e non poteva essere altrimenti), ciò che risulta davvero insopportabile è l’ennesimo rinvio da parte dei Paesi ricchi di decisioni concrete su quei 100 miliardi di dollari all’anno di aiuti a quelli più poveri promessi a Copenhagen e che non sono mai diventati realtà.

Infine, forse un passo avanti è l’impegno a stabilire prima del 2015 modalità e strumenti per colmare il gap tra emissioni attese (58 Gton), quelle raggiungibili con gli attuali impegni (52-57 Gton) e il limite che gli scienziati considerano invalicabile (44 Gton): una montagna che oscilla tra gli 8 e i 13 miliardi di tonnellate di CO2eq che mette davvero paura.

Fin qui la sintesi degli accordi. La valutazione politica non può che essere assai severa. Confermata la soddisfazione per il posizionamento del nostro Paese tra quelli più avanzati (con inversione di 180 gradi rispetto all’era Berlusconi), non si può tacere l’ennesima delusione per l’incapacità dell’Europa di esercitare una leadership politica e per la posizione degli Usa del tutto latitanti e addirittura fuggitivi sul tema risorse.

Fin quando noi, il cosiddetto Occidente, non cambieremo complessivamente approccio è difficile poi lamentarsi dell’atteggiamento ostruzionistico della Cina, che al suo interno investe ormai moltissimo sulla green economy, ma continua a essere riluttante (eufemismo) a qualsiasi impegno vincolante a livello internazionale.

Peraltro nello scacchiere delle alleanze internazionali qui a Doha si è definitivamente affermato lo “sganciamento” dei Paesi poveri da quelli emergenti (Brasile, India, Cina), visto che i primi hanno compreso che i loro interessi non potevano essere difesi da chi ormai è tra i più grandi emettitori e che anzi il rischio che venissero strumentalizzati era sempre molto alto.

Che fare adesso? Nelle nostre politiche interne, scegliere la green economy senza più titubanze. Questo è il compito che attende il prossimo Governo – scelta che peraltro ci permetterebbe di esercitare anche un ruolo più forte in Europa; in politica estera auspicare che il presidente Obama abbia la forza e la volontà per cambiare le scelte del suo Paese e intensificare ogni forma di collaborazione con i Paesi emergenti (anche per convenienza) e con quelli più poveri (per elementare dovere di solidarietà).

Ma il punto essenziale è il primo, senza il quale non saremo credibili per il resto: fonti rinnovabili (basta con stupide polemiche su incentivi e accompagniamole verso la grid parity), efficienza energetica (ma sul serio, non con insopportabili balletti su stabilizzazione del 55% per esempio), modifica della Strategia Energetica Nazionale (su trivellazioni innanzitutto), sostegno a innovazione e alle modifiche dei processi industriali e dei prodotti. Questi gli assi principali su cui impostare la politica industriale prossima ventura.

Farà bene a noi e farebbe bene anche alla COP 19 che si terrà a Varsavia tra un anno.

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