Petrolio e drammatiche crisi economiche. Un report del Fondo Monetario Internazionale

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Un recente paper del FMI, trascurato dalla stampa specializzata, ha affrontato la questione di come disponibilità, domanda e prezzo del petrolio potrebbero influenzare più o meno pesantemente l’economia globale nella prossima decade o, addirittura, anche entro il 2020. Alcuni scenari paventanti sono drammatici.

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La produzione di petrolio cresce meno della domanda mondiale e se questo gap si allargherà potrà provocare ulteriori fasi recessive. Parola di Fondo Monetario Internazionale. A ottobre è uscito un paper, dal titolo ‘Oil and the World Economy: Some Possible Futures’, piuttosto trascurato dalla stampa specializzata, forse perché di una certa complessità, ma che affronta la questione di come disponibilità, domanda e prezzo del petrolio potrebbero influenzare più o meno pesantemente l’economia globale nella prossima decade o anche entro il 2020. L’analisi è da considerare con attenzione proprio per l’istituzione che l’ha pubblicata, che non è certo un gruppo di “picchisti”.

Il documento illustra innanzitutto le statistiche sulla produzione petrolifera globale: dal 1981 al 2005 questa è cresciuta dell’1,8% all’anno, ma in seguito è rimasta praticamente ‘piatta’. Negli ultimi sette anni quella che viene definita crescita della produzione ‘oil’ è stata rappresentata quasi unicamente dal petrolio non convenzionale, come gas naturale liquefatto (NGL), sabbie bituminose e biocombustibili. Lo studio spiega che comunque questi sostituti non avendo la versatilità del greggio (pensiamo al problema della raffinazione e ai suoi costi), nel medio o lungo periodo, in caso di calo dell’offerta del conventional oil, potrebbe essere un freno alla crescita economica mondiale.

Il FMI non crede affatto in un tasso di crescita della produzione del petrolio convenzionale pre-2005. Ma quale sarà eventualmente il suo tasso di diminuzione? Questo è il punto dello studio dell’istituzione finanziaria e da qui tutte le ricadute sugli effetti recessivi nelle economie industrializzate ed emergenti.

La produzione e il consumo mondiale di petrolio, pari a circa 31 miliardi di barili l’anno, a un prezzo non elevatissimo, potrebbe non durare a lungo. Un calo della produzione è stimato da molti geologi petroliferi entro il 2020 e non sarà coperto da quel petrolio ‘non convenzionale’ che molti, con troppo entusiasmo, soprattutto la IEA, ritengono la soluzione di tutte le carenze e che per di più renderebbe gli States autonomi dalle importazioni (Qualenergia.it, Entro il 2020 gli Usa saranno il più grande produttore mondiale di petrolio).

Lo shale oil (olio di scisto), un petrolio difficile da estrarre e quindi costoso, potrebbe rivelarsi invece una bolla. A parte i costi per le trivellazioni e la fratturazione per ricavare questo petrolio, diverse volte più elevati di quelli convenzionali (anche di quelli offshore a basse profondità), va detto che il loro esaurimento medio annuale di questi giacimenti è di circa il 40% contro il 4-5% dei pozzi convenzionali.

Al momento gli sforzi in North Dakota e Texas stanno portando a risultati molto interessanti, facendo innalzare la produzione nazionale degli Stati Uniti come mai negli ultimi 30 anni. L’ottimismo regna dunque nella pagine della stampa economica USA.

Ma le cose potrebbero essere meno entusiasmanti di quanto appare. Vediamo perché. Un pozzo di shale oil ha una produzione giornaliera di 144 b/g (un pozzo convenzionale 3-5.000 b/g, per non parlare dei pozzi profondi offshore). Per produrre quegli 8 milioni di barili al giorno in più che servirebbero agli States per rendersi effettivamente indipendenti dall’import si dovrebbero avere altre 60mila perforazioni, mentre attualmente nel Paese sono pari a 6.000. Quasi impossibile mantenere per un lungo periodo questo livello di pompaggio, viste le precedenti considerazioni.

Poi c’è la questione del prezzo. L’attuale prezzo del petrolio, intorno agli 85 $/b, è il giusto stimolo per continuare la ricerca, si spiega nel report, ma una sua diminuzione già del 10-12% renderebbe poco proficuo il margine per trivellare nuovi pozzi per lo shale oil. Alla fine la stima è che questa bolla si esaurirà nell’arco di un altro anno, forse due.

Guardiamo ora la domanda a livello mondiale. Questa sta crescendo negli ultimi anni da circa 800mila a 1 milione di barili a giorno, sebbene alcune previsioni la ritengano in calo. Ecco perché con una produzione stabile il prezzo resta sostenuto.

Veniamo ora agli scenari del FMI. Se la diminuzione del tasso di crescita annuale della produzione petrolifera tenderà a essere modesta e se l’economia saprà reagire con la giusta dose di capitale, lavoro e petrolio la crisi recessiva potrà non essere drammatica, dice il Fondo.

Tuttavia, seguendo le analisi della letteratura scientifica più pessimista, nel caso in cui la produzione globale di petrolio cali del solo 1% all’anno, la stima del FMI è che il prezzo del petrolio possa innalzarsi del 60%: l’offerta continua così a decrescere e il prezzo reale del petrolio continuerà a salire fino a che il crollo della domanda non riporterà in equilibrio offerta e domanda stessa, ovviamente su livelli molto più bassi degli anni precedenti.

Altro scenario illustra l’ipotesi di un calo annuale della produzione del 3,8%, che è circa il tasso medio di depletion dei pozzi esistenti. In questo caso l’impatto è quattro volte più severo del precedente scenario. Nei Paesi industrializzati il Pil annuale diminuirà di circa l’1% con un prezzo del petrolio che aumenterà del 200%. Uno scenario drammatico che vedrebbe tutto il sistema economico mondiale crollare come una castello di carte, con un effetto domino sulle vite delle persone. Ecco perché la politica, anche quella energetica, deve guardare oltre un ristretto orizzonte temporale.

Nei prossimi cinque anni capiremo se questi scenari si verificheranno, ma è chiaro che quanto prima occorrerà agire per uscire dall’era del petrolio e da questa fonte caratterizzata da una domanda ancora molto rigida. Ma questa è un’altra storia.

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