La bioenergia in Italia, questa sconosciuta (seconda parte)

La seconda parte dell'articolo sulle bioenergie in Italia con il parere dell’ingegner Giacobbe Braccio, responsabile del settore Unità Tecnologie Trisaia dell’Enea intervistato da Qualenergia.it. In questa parte dell'articolo si parla di biogas e di bioliquidi: il loro sviluppo, gli aspetti ambientali più controversi, i benefici da sfruttare.

ADV
image_pdfimage_print

Pubblichiamo la seconda parte dell’articolo sulle bioenergie (prima parte)

Il secondo tipo di bioenergia, per produzione, è quella derivata dal biogas da fermentazione anaerobica. Nel 2011, il biogas ha fornito circa 3,4 TWh. Dice l’Ing. Braccio dell’Enea, intervistato per Qualenergia.it: «Gran parte della produzione deriva dalla fermentazione spontanea dei rifiuti e dei fanghi di depurazione in discarica, o delle deiezioni animali e scarti agricoli nei digestori. Il recupero energetico da rifiuti e scarti è quello che sicuramente ha il migliore impatto ambientale, anche perché la loro fermentazione spontanea finirebbe comunque per immettere in atmosfera ingenti quantità di metano che, come noto, è uno dei maggiori gas serra, con un impatto 20 volte superiore al quello della CO2».

Le controversie non mancano però neanche in questo settore. Circa 1,4 TWh del totale provengono, infatti, dalla digestione di prodotti agricoli, essenzialmente mais, coltivato e poi fatto fermentare per produrre biogas. È una filiera che sta letteralmente esplodendo con un numero di installazioni passate da 81 a 334 in un solo anno, e non a tutti piace questo uso “energetico” delle coltivazioni alimentari. «Dare agli agricoltori la possibilità di produrre bioenergia, però, ha aiutato molte aziende agricole a superare l’attuale crisi e, in realtà, il cerchio ambientale quasi si chiude, visto che i fanghi del digestore, contenenti azoto, fosforo e altri nutrienti, vengono usati poi per fertilizzare gli stessi campi», ricorda l’esperto dell’Enea.

Essendo però gli impianti per biogas spesso sparsi per la campagna, raramente possono cogenerare calore da utilizzare localmente, sprecando così gran parte dell’energia termica prodotta. Ma il metano, che forma il 60-70% del biogas, potrebbe essere immesso nelle condutture e trasportato facilmente altrove, così da essere utilizzato in modo più razionale per la cogenerazione, il riscaldamento o l’autotrasporto. Il problema è come separarlo dal 30-40%  di CO2 che contiene.

«La separazione della CO2 è possibile, ma oggi conviene solo in grandi impianti. Qui all’Enea stiamo lavorando alla progettazione di impianti di dimensioni ridotte, che permettano anche ai piccoli produttori di biogas di valorizzare la loro produzione e immettere il biometano nelle condutture». Sugli impatti ambientali del biogas e sui benefici per il settore agricolo e zootecnico, Qualenergia.it pubblicherà nei primi giorni di dicembre uno Speciale tecnico in collaborazione con il CIB (Consorzio Italiano Biogas e Gassificazione).

Ultimi come produzione bioenergetica, con 2,7 TWh nel 2011, sono i bioliquidi la fonte più controversa nel settore. «I bioliquidi, per oltre il 90% oli vegetali, vengono impiegati quale combustibile, in luogo del tradizionale gasolio, all’interno di motori a combustione interna, in genere di derivazione navale e, quindi, della taglia di alcune decine di MW», dice Giacobbe Braccio.

Nella produzione di energia elettrica viene impiegato sostanzialmente l’olio di palma, la cui produttività per ettaro è 5-6 volte superiore a quella dell’olio di colza ed è quindi, in genere, molto più economico. Com’è noto intorno a questo olio sono nate forti polemiche, in quanto l’enorme sviluppo della sua produzione è avvenuto in buona parte a spese della foresta primaria indonesiana (e ora di quella africana), la cui trasformazione in piantagioni di palma da olio, oltre a danneggiare la biodiversità, sta anche liberando dal suolo enormi quantità di CO2.

«Recenti sviluppi normativi in merito alla sostenibilità dei biocarburanti stanno però cercando di ripristinare una seppur parziale condizione di equilibrio». Oggi l’olio utilizzato per la bioenergia, per ricevere 280 euro/MWh di incentivo, deve infatti essere certificato a livello europeo, mentre l’olio non certificato riceve un incentivo di soli 180 euro/MWh. La certificazione, a partire dal 2012, include non solo un calcolo preciso della CO2 risparmiata dall’intera filiera rispetto all’uso del gasolio (oggi deve essere almeno un -30%, e arriverà a un -80% nel 2020), ma anche la garanzia che l’olio non provenga da terreni di nuova deforestazione.

Ma a parte i dubbi che possono venire sulla validità di queste certificazioni, c’è il fatto che anche se le piantagioni di palma da olio occupano campi già esistenti, poi i locali devono comunque deforestare per avere terreni dove produrre alimenti. «Tra il 2010 e il 2011 si è comunque assistito a un forte incremento del numero di centrali elettriche a oli vegetali, passate da 97 a 255. Ciò è sostanzialmente dovuto alla diffusione di impianti al di sotto del MWe. Ma, in controtendenza, è diminuita l’energia elettrica prodotta, di circa 0,3 TWh, essenzialmente a causa dell’incremento del prezzo dell’olio, che ha portato a uno spegnimento di molte centrali o al loro uso solo durante i momenti di picco del prezzo dell’elettricità».

Gli incentivi all’energia, insomma, sembrano funzionare bene per fonti che hanno un costo operativo quasi nullo, come il solare, ma per fonti che richiedono un continuo rifornimento di combustibili dal prezzo fortemente variabile, il loro effetto può anche essere quello di spingere alla realizzazione di imprese destinate al fallimento economico.  E usare quasi 800.000 tonnellate l’anno di olio importato per produrre elettricità è un lusso, pagato con oltre 400 milioni di euro di incentivi, che sembra permettersi solo l’Italia; nel resto d’Europa gli oli vegetali vengono per lo più usati, più razionalmente, per farne biodiesel. «In futuro, però, si potrebbero diffondere biocombustibili liquidi molto più sostenibili ambientalmente degli attuali. Per esempio una tonnellata di bio-etanolo prodotto da biomasse legnose, come quello realizzato a partire da canna palustre nell’impianto Mossi & Ghisolfi equivale, come riduzione di emissioni di CO2, a due tonnellate di bioetanolo prodotto da fermentazione di mais o zucchero», spiega Braccio.

Insomma, l’analisi del mondo delle bioenergie fa riflettere sul senso del conferimento di incentivi per l’energia sostenibile. Questi dovrebbero servire essenzialmente a tre scopi: promuovere fonti che riducono le emissioni di CO2, renderci meno dipendenti dall’estero e permettere lo sviluppo di nuove filiere energetiche che generino nuova occupazione e, nel tempo, diventino competitive con quelle dei fossili. Ma se la fonte «sostenibile» provoca emissioni e danni ambientali quanto, se non più, dei combustibili fossili, il suo combustibile viene in gran parte o tutto importato e la sua tecnologia non ha nulla di innovativo, e quindi ben difficilmente diventerà mai competitiva, viene da chiedersi, cosa incentiviamo a fare? E con la «green economy», direbbe qualcuno, tutto questo che c’azzecca?

ADV
×