La bioenergia in Italia, questa sconosciuta (prima parte)

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Il mondo delle bioenergie è variegato sia in termini di combustibili che per il loro utilizzo finale. Pubblichiamo la prima parte di un excursus su questo comparto in compagnia dell’ingegner Giacobbe Braccio, responsabile del settore Unità Tecnologie Trisaia dell’Enea. I combustibili solidi di origine organica e quelli lignocellulosici.

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Nell’ultimo rapporto GSE sulla generazione elettrica da rinnovabili nel 2011, presentato poche settimane fa, un dato, fra i tanti, salta agli occhi: la seconda fonte energetica rinnovabile, dopo l’idroelettrico, non è il fotovoltaico, che pure ha quintuplicato da sua produzione rispetto al 2010, ma la bioenergia, che nel 2011, senza troppo clamore, ha sorpassato anche il geotermico, arrivando a 10,832 TWh, + 14,7% sul 2010, contro i 10,795 TWh raggiunti dal solare. Ma quando si parla di bioenergie, si intendono molte fonti diverse, fonti che, spesso, non si fanno notare solo per la produzione in continua crescita, ma anche per le discussioni che suscitano circa la loro effettiva sostenibilità economica e ambientale e quindi l’opportunità di incentivarle.

Per orientarci in questo universo poco noto, abbiamo chiesto l’assistenza dell’ingegner Giacobbe Braccio, responsabile del settore Unità Tecnologie Trisaia dell’Enea, ente di ricerca che, fra l’altro, ha collaborato anche alla messa a punto dell’impianto Mossi & Ghisolfi per la produzione di bioetanolo di seconda generazione dalle canne palustri, una delle più importanti e promettenti realizzazioni industriali italiane nel settore della green economy (Qualenergia.it, Biocarburanti del futuro? Potrebbero partire dall’Italia).

«Prima di cominciare l’analisi delle singole fonti – dice Braccio – vorrei far notare che mentre altre fonti rinnovabili, come l’eolico o il fotovoltaico, possono produrre solo elettricità, le biomasse sono più versatili, e usarle solo per questo scopo spesso si configura come uno spreco energetico. La loro complessa natura, infatti, le rende preziose per esempio per la produzione di biomateriali e biocombustibili, ma anche banalmente per la produzione di energia termica (vedi anche il milione e mezzo di piccole stufe e caldaie a legna e soprattutto a pellet diffuse tra le famiglie italiane, ndr). Un aspetto di cruciale importanza relativo all’impiego di biomasse per fini energetici, che non riguarda invece le altre fonti quali il solare o l’eolico, è però la reperibilità della materia prima. In tal senso, valutazioni di carattere ambientale portano a privilegiare tutte le biomasse prodotte localmente. Inoltre, nel caso di impiego per la produzione di energia elettrica, l’auspicio è quello di creare le condizioni necessarie affinché anche il calore possa essere recuperato, tramite la cogenerazione. Le ultime rimodulazioni dei decreti incentivanti portano appunto in tale direzione, privilegiando i piccoli impianti a elevata efficienza energetica».

La principale fonte di bioenergia in Italia è rappresentata delle biomasse, cioè dai combustibili solidi di origine organica. Metà della produzione elettrica da biomasse solide, 2,2 TWh, deriva dalla combustione dei rifiuti solidi urbani: «Visto che questi contengono anche materiale combustibile non rinnovabile, come per esempio la plastica, per convenzione si è deciso di considerare rinnovabile, e quindi incentivabile, solo metà della produzione elettrica totale, a differenza di quanto succedeva ai tempi del Cip6, quando a essere incentivata era l’intera produzione da rifiuti», dice Braccio.

Anche se almeno in parte rinnovabile, questa tipologia di fonte energetica, utilizzata nei cosiddetti “termovalorizzatori”, è fortemente osteggiata: «E lo si vede bene dal numero delle installazioni impiantistiche, che ammontavano a 71 nel 2010, e tali sono rimasti nel 2011, con solo una leggera crescita produttiva». L’opportunità di costruire altri termovalorizzatori è ostacolata, oltre che dallo scarso consenso popolare di cui godono a causa delle temute sostanze inquinanti rilasciate, anche dal loro andare contro la necessità di aumentare la raccolta differenziata. L’Italia ricicla solo il 31% della sua spazzatura, contro il 65% dell’obbiettivo europeo al 2020, quindi il riciclo dovrà crescere ancora molto. Ma se il riciclo crescerà, i termovalorizzatori rischiano di trovarsi a corto di combustibile e aver problemi ad ammortizzare il proprio costo. Questo è quello che sta già accadendo in varie nazioni nordeuropee, ultima la Svezia, Paese con una raccolta differenziata al 48%, che dovrà far arrivare dall’estero quest’anno 800.000 tonnellate di rifiuti per non spegnere i termovalorizzatori che, oltre all’elettricità, forniscono anche il 20% del riscaldamento svedese.

La seconda tipologia di biomasse sono quelle di natura lignocellulosica, che nel corso del 2011 hanno fornito circa 2,5 TWh di elettricità: «In questo caso si nota come a fronte di un incremento del numero delle installazioni impiantistiche, cresciute in un anno da 71 a 99, la produzione sia aumentata solo di poco. L’incremento in numero è stato indotto infatti anche dalla rimodulazione delle tariffe incentivanti che hanno premiato gli impianti di taglia inferiori al MWe», spiega Braccio, che aggiunge: «il settore della bioenergia da legno è stato finora caratterizzato da impianti con taglia dell’ordine delle decine di MW, il cui consumo medio è intorno a 80-90.000 tonnellate annue di biomassa, ovvero quantità estraibili da circa 4-5.000 ettari di bosco. In ragione di ciò, spesso per il funzionamento di tali impianti, si è fatto ricorso a importazioni esterne all’area di installazione, con non poche problematiche di sostenibilità ambientale».

Quando si parla di importazioni, si intende anche dall’altro capo del mondo: impianti in Calabria, per esempio, importano legna dal Brasile e dal Canada. L’importazione, oltre a implicare un grande consumo di combustibili fossili per il trasporto, annulla anche l’effetto occupazionale e di cura del territorio, che viene dalla gestione dei boschi locali. Inoltre, dato che spesso nell’intorno di tali grandi installazioni si trova un ridotto numero di utenze termiche, gran parte del calore disponibile resta inutilizzato. Ciò comporta una riduzione dell’efficienza complessiva a non più del 25%. «La condizione ideale per questo tipo di fonte, quindi, è quella di piccole installazioni, dell’ordine di qualche centinaio di kWe, poste in zone con una densità di biomasse sufficiente ad alimentare localmente l’impianto, e con abbastanza utenze intorno da poter pienamente usare il calore per riscaldamento e raffrescamento».

Seconda parte dell’articolo (su biogas e bioliquidi)

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