Cancellare dal decreto “Cresci Italia” quei favori ai petrolieri

  • 10 Ottobre 2012

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Con le novità introdotte è a rischio trivellazioni una superficie marina più grande della Sicilia. Il nostro Paese è ancor di più un paradiso per petrolieri. Greenpeace, Legambiente e WWF chiedono al Governo di cancellare l’articolo 35 del decreto “Cresci Italia”. Il petrolio eventualmente estratto dai nostri mari basterebbe per sole 7 settimane.

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Cancellare l’articolo 35 del decreto “Cresci Italia” (d.l. 83/2012) voluto dal ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera e scommettere su una strategia energetica nazionale che non rilanci le fonti fossili, ma punti decisamente su efficienza e rinnovabili. Perché quell’articolo espone a rischio trivellazione una superficie marina più grande della Sicilia e costituisce una sanatoria non solo dei titoli acquisiti dai petrolieri al giugno 2010 ma anche delle istanze di prospezione e di ricerca in mare nella fascia di interdizione delle 12 miglia, mettendo a rischio le aree protette e le zone litoranee di pregio.

È questa la richiesta avanzata al Parlamento da Greenpeace, Legambiente e WWF. Il decreto “Cresci Italia”, infatti, estende a tutta la fascia costiera la zona off-limits delle 12 miglia per le nuove richieste di estrazione di idrocarburi a mare, ma fa anche ripartire tutti i procedimenti per la prospezione, ricerca ed estrazione di petrolio che erano stati bloccati nel giugno di due anni fa dal decreto legge n. 128/2010 approvato dopo l’incidente alla piattaforma Deepwater Horizon nel Golfo del Messico.

L’articolo 35 del decreto “Cresci Italia” stabilisce di fare salvi i procedimenti concessori (…) in corso, ma anche i procedimenti autorizzatori e concessori conseguenti e connessi che siano stati avviati al 29 giugno 2010. Inoltre, la fascia off-limits delle 12 miglia parte ora dalle linee di costa (cioè dalla battigia) e non come era stabilito precedentemente dalle linee di base (linee che includono golfi e insenature). Nella sostanza, anziché garantire i soli titoli acquisiti, come ha tentato di accreditare il ministro dello Sviluppo economico Passera, si mettono così a rischio ampissime porzioni delle acque territoriali italiane, anche all’interno delle fasce d’interdizione introdotte nel giugno 2010 a tutela delle aree protette.

Un colpo di spugna che potrebbe dare il via libera ad almeno 70 piattaforme di estrazione di petrolio che si sommerebbero alle 9 già attive nei mari italiani per un totale di 29.700 kmq tra Adriatico centro meridionale, Canale di Sicilia, mar Ionio e golfo di Oristano, praticamente una superficie più grande della Sicilia.

I quantitativi di petrolio in gioco sono, però, davvero risibili. Allo stato attuale, la produzione italiana di petrolio equivale allo 0,1% del prodotto globale e il nostro Paese è al 49o posto tra i produttori. Secondo le ultime stime del ministero dello Sviluppo economico, ci sarebbero nei nostri fondali marini 10,3 milioni di tonnellate di petrolio di riserve certe. Stando ai consumi attuali, coprirebbero il fabbisogno nazionale per sole 7 settimane. Non solo: anche attingendo al petrolio presente nel sottosuolo, concentrato soprattutto in Basilicata, il totale delle riserve certe nel nostro Paese verrebbe consumato in appena 13 mesi.

Questi dati dimostrano l’assoluta insensatezza del rilancio delle attività estrattive previsto dalla Strategia energetica nazionale abbozzata dal ministro Passera e della spinta verso nuove trivellazioni volte a creare – secondo i proponenti – 15 miliardi di euro di investimento e 25 mila nuovi posti di lavoro. Il settore è destinato a esaurirsi in pochi anni, come sostiene, per altro, lo stesso ministero dello Sviluppo economico nel Rapporto annuale 2012 della sua Direzione generale per le risorse minerarie ed energetiche: «Il rapporto fra le sole riserve certe e la produzione annuale media degli ultimi cinque anni, indica uno scenario di sviluppo articolato in 7,2 anni per il gas e 14 per l’olio».

Nonostante il prodotto estratto sia poco e di scarsa qualità, l’Italia è una sorta di paradiso fiscale per i petrolieri: estrarre idrocarburi nel nostro Paese è vantaggioso solo perché esistono meccanismi che riducono a nulla il rischio d’impresa, mettendo però ad alto rischio l’ambiente. Per esempio, le prime 20 mila tonnellate di petrolio prodotte annualmente in terraferma, come le prime 50 mila tonnellate di petrolio estratte in mare, i primi 25 milioni di metri cubi di gas in terra e i primi 80 milioni di metri cubi in  mare sono esenti dal pagamento di aliquote allo Stato. Ma non è finita qui. Le aliquote (royalties) sul prodotto estratto sono di gran lunga le più basse al mondo e sulle 59 società operanti in Italia nel 2010 solo 5 le pagavano (Eni, Shell, Edison, Gas Plus Italiana ed Eni/Mediterranea idrocarburi).

L’Offshore Mediterranean Conference di Ravenna del 2004, o quanto riportato in documenti ufficiali più recenti da compagnie petrolifere straniere come la Northern Petroleum Plc e la Cygam Energy Inc., sottolineano come le condizioni, in particolare quelle fiscali, molto vantaggiose dell’Italia rispetto agli altri Paesi, rendano molto più semplice avviare da noi l’attività estrattiva di idrocarburi: una combinazione di esenzioni, di aliquote sul prodotto e di canoni di concessione bassissimi e una serie di agevolazioni e incentivi ha reso la nostra Penisola e le sue acque oggetto di una ricerca sovradimensionata di oro nero.

Nel decreto “Cresci Italia” l’incremento delle royalties dal 7% al 10% per il gas e del 4% al 7% per il petrolio è semplicemente ridicolo, visto che nel resto del mondo nei Paesi avanzati si applicano royalties che vanno dal 20% all’80% del valore degli idrocarburi estratti. Favorire in questo modo le attività estrattive in Italia, creando un vantaggio competitivo artificioso scarsamente conciliabile con le regole della concorrenza e il principio di precauzione comunitari, è una follia visto che i pozzi e le piattaforme off-shore sono localizzati spesso vicino a coste e specchi d’acqua marina di alto pregio ambientale.

Una delle prime zone da tutelare della vertenza contro le trivellazioni è il Canale di Sicilia, dove negli ultimi anni compagnie grandi e piccole hanno moltiplicato le richieste per le esplorazioni off-shore. I permessi di ricerca già concessi nell’area sono 11 e 18 le nuove richieste per ricerca di idrocarburi in via di valutazione. I permessi per l’estrazione di idrocarburi già concessi sono tre, per un totale di quattro piattaforme attive al largo delle coste siciliane, e tre sono le concessioni di coltivazione in via di valutazione. Le compagnie petrolifere sembrano poi particolarmente interessate all’area del Canale di Malta (tra Malta e la Sicilia) dove sono già attivi 2 permessi di ricerca. A farla da padroni nella corsa all’oro nero sono compagnie straniere ben conosciute come la Shell, principale operatore dei permessi di ricerca a nord del Canale per una superficie di oltre 4200 km2, e la Northern Petroleum, che possiede ben sette istanze di ricerca e ne ha presentate altre 9. A seguire compagnie come Eni ed Edison, Transunion Petroleum e Audax Energy.

Altro fronte caldo è quello dell’Adriatico centro meridionale. È proprio dei giorni scorsi la sentenza del Tar Lazio contro le ricerche di petrolio della Petroceltic al largo delle isole Tremiti, che ha dato ragione agli enti locali e alle associazioni ambientaliste. Un sano protagonismo dei territori e delle istituzioni locali contro l’arrivo di nuove piattaforme che sta minando con successo l’insensato piano delle compagnie petrolifere supportato con grande enfasi dal ministro Passera, che garantisce solo profitti alle aziende e nessun beneficio sostanziale per il Paese.

(da comunicato congiunto Greenpeace, Legambiente e WWF)

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